Questo articolo ha bisogno di una premessa. Stiamo per avventurarci insieme nella vetrina distorta dei social (e di TikTok in particolare), per raccontare cosa mostra di alcune nuove forme di lavoro, e come racconta l’illusione di guadagni facili, col rischio di ingannare ragazzi giovanissimi: ed è come avventurarsi in un safari in cui si incontrano artificialmente solo alcune specie di animali, mentre tutto il resto del mondo se ne sta fuori.

Significa che l’errore più grave che potremmo fare è pensare che tutto quello che riportiamo qui descriva un’intera generazione: invece ne è solo una parte ed è praticamente impossibile quantificarne numericamente la rilevanza. C’è però un fatto che è ugualmente importante. Il racconto che cercheremo di approfondire, andando oltre la sua superficie, è lo stesso che riguarda migliaia di ragazzi in tutto il mondo, mentre si confrontano con i loro coetanei dietro lo smartphone. E non solo.

Troppo crudele

Il punto di partenza del nostro safari è infatti una serie tv, o meglio ancora il primo reality show italiano su Netflix. Si chiama Summer job, “lavoro estivo”, e il funzionamento è presto detto: alcuni ragazzi, della cosiddetta generazione Z, sperano di passare una vacanza da sogno in Messico.

Si immaginano qualche settimana di eccessi e promiscuità, e per questo sembrano decisamente portati. Una di loro – Marina Cinti, di Jesi, vent’anni – conia lo slogan: «La vita è bella, ma la bella vita è meglio». Un’altra – Melina De Macedo, che vive a Torino, ha 21 anni ed è brasiliana d’origine – dice, riferendosi a ogni weekend: «Se non è per tornare a casa storti io neanche esco di casa, neanche chiamami». E descrive la sua indole per la trasformazione durante gli eccessi con una citazione letteraria, dicendo di sentirsi come lo «scarafaggio di Kafka».

Gli altri concorrenti sembrano meno avvezzi ai riferimenti letterari, ma hanno in comune una diffusa allergia per il lavoro. Pietro Fanelli, vent’anni di Bari, è il più esplicito: «Per me apparire è una delle cose più importanti», dice. «Mi sento un po’ Dorian Gray e un po’ Lady Oscar». «Non ho mai lavorato un giorno nella mia vita perché non voglio sprecare nemmeno un secondo a fare qualcosa che non mi piace. Sarebbe troppo crudele».

Guadagni facili

Come avrete intuito, gli autori di Netflix in realtà amano “la crudeltà”. I ragazzi saranno costretti a lavorare per mantenersi la vacanza. Saranno alle dipendenze di alcuni imprenditori italiani in Messico, negli alberghi o nei resort. Sulla base della loro condotta, ogni settimana riceveranno una “busta paga”. Se sarà vuota saranno a rischio eliminazione.

Alla fine, come qualsiasi fiaba, i pochi superstiti subiranno una trasformazione (e questa volta Kafka non c’entra). I “brutti anatroccoli” diventeranno cigni, imparando la professionalità, il valore dei soldi e proveranno persino l’autostima per un lavoro fatto bene.

Sono passati più di 22 anni dalla prima edizione del Grande Fratello e ormai abbiamo imparato che non si può giudicare la realtà da un reality show. Quanto meno perché c’è una scelta certosina dei concorrenti e una costruzione del montaggio: Netflix voleva creare un prodotto di intrattenimento, non un documentario su una generazione.

Eppure, alcuni elementi di Summer job sono comunque gli stessi che si trovano frequentemente facendo “zapping” fra i contenuti su TikTok. Dove è abbastanza comune imbattersi in video che pubblicizzano guadagni facili, all’apparenza senza più bisogno di fatica e lavorare davvero.

Aprirsi OnlyFans

STRF/STAR MAX/IPx

Così, se un tempo ci si diceva un po’ ironicamente «mollo tutto e apro un chiringuito alle Hawaii», ora il rischio è che alcuni ragazzi decidano di “mollare tutto” per aprirsi OnlyFans. C’è infatti un racconto abbastanza diffuso – talvolta amplificato anche dai media tradizionali – che riporta i guadagni apparentemente facili che si possono fare creando “certi contenuti”.

Elisa Esposito, la ragazza diventata famosa in estate per uno strano modo di parlare chiamato “corsivo”, ultimamente fa spesso video di questo tipo. «I boomer mi danno della tr**a per OnlyFans, ora le loro figlie mi chiedono consigli su come guadagnare in quella piattaforma», scrive come descrizione in un video di inizio gennaio.

In un altro video posa in costume davanti a una piscina, con una scritta: «Sarò anche la più criticata e insultata in Italia ma almeno vivo la mia vita felice (emoticon dei dollari), mentre voi siete sul divano a pensarmi». Nella didascalia scrive: «Alzatevi e fate qualcosa anche voi». In un altro video, girato a Dubai, spiega come fare: «Se anche a te non piace l’inverno, apriti OnlyFans per andare nei posti caldi».

I rider del sesso

OnlyFans è un social network in cui vengono condivisi perlopiù contenuti per adulti. Chiunque può pubblicare le proprie foto o i propri video espliciti, guadagnando grazie alle persone che decidono di abbonarsi. Così alcuni (non tutti) riescono effettivamente ad avere abbastanza introiti da renderlo un lavoro. Ma a quale prezzo?

La ricercatrice Ariana Safaee è stata fra le prime al mondo ad analizzare il fenomeno con un metodo critico, in una tesi di dottorato discussa nel 2021 all’università di San Diego. La sua idea è che l’ambizione per una totale libertà, il fatto di essere “boss di sé stessi”, con OnlyFans sia in realtà un’illusione. Le dinamiche lavorative sono le stesse tipiche della “gig economy”, quasi che stessimo parlando di rider del sesso. La differenza principale è che per i rider, nel tempo, si è sviluppata una certa coscienza sociale sulle problematiche del lavoro. Ancora non sono state risolte, ma almeno si è iniziato a parlarne.

Per OnlyFans invece la tendenza è opposta: se anche si mantiene lo stigma tipico della pornografia, è sempre più diffuso il racconto “senza ombre” della facilità dei guadagni. Secondo Google, la ricerca delle parole “Onlyfans come si guadagna” è in aumento del 700 per cento in Italia. Basta una veloce ricerca per trovare articoli con modelle, sportive o persone comuni che si vantano di aver cambiato la loro vita, riuscendo a ottenere così migliaia di euro al mese. Quasi sempre non raccontano gli aspetti negativi.

Compromettere il futuro

Con grande onestà, lo ha fatto PeachMess (ovviamente è il suo nome d’arte) su TikTok, rispondendo a uno dei tanti video sui guadagni facili. Ha 22 anni ed è pugliese e OnlyFans lo conosce bene, essendo da qualche anno il suo lavoro.

«Non è un posto dove ti regalano soldi, smettiamola di credere che si possano guadagnare milioni di euro e andare tutti a vivere a Dubai», dice. «Le ragazze “normali” che conosco guadagnano in genere 2mila, 2.500 euro al mese. È una buona cifra, ma a quel punto è meglio avere un qualsiasi altro lavoro. Perché qui non sono tutte rose e fiori».

I creatori non si limitano a condividere foto o video, spiega PeachMess. Devono chattare con tutti i loro iscritti, anche quelli più maleducati o perversi. E devono costruirsi un pubblico, andando a cercarlo su altri social network. Così facendo, in genere associano la propria immagine a un lavoro di matrice sessuale, depositandone tracce che sarà molto difficile cancellare in futuro.

«Per favore smettiamola di far credere alle persone che avere OnlyFans sia un modo per fare “soldi facili”», dice PeachMess. In un altro video lo spiega ancora meglio: «Bisogna capire che futuro vuoi avere. Se vuoi restare legato a questo mondo, può avere senso. Altrimenti, se vorrai diventare insegnante, avvocato, musicista o attore, non potrai più farlo. Vale davvero la pena rinunciare al proprio futuro?».

«Inoltre le vostre foto possono finire nelle mani di chiunque: dei vostri parenti, del vostro ex o dell’amica che vi odia. E potrebbe davvero rovinarvi la vita se non siete estremamente consapevoli di quello che state facendo».

Un rapporto iniquo

Secondo Safaee è proprio questo il problema. «Onlyfans trae profitti sfruttando il lavoro dei creatori e chiude un occhio di fronte alle diverse problematiche che i lavoratori del sesso affrontano nell’utilizzo della piattaforma», spiega. «Ci sono due punti principali a sostegno di questa tesi».

«Il primo riguarda lo “sforzo emozionale” e il lavoro non retribuito. I creatori svolgono una quantità eccessiva di lavoro emozionale a causa della necessità di interagire con i loro clienti, ma anche per gli abusi che subiscono online e di persona per il loro lavoro. Inoltre, svolgono una grande quantità di lavoro non retribuito per attirare e mantenere gli abbonati attraverso il coinvolgimento sui social media».

«Il secondo punto riguarda la struttura della “gig economy”, che nega ai creatori molti dei benefici dei lavori tradizionali», dice Safaee. «Ma, allo stesso tempo sposta su di loro la responsabilità dei guadagni se vogliono ottenere un reddito dignitoso, con l’illusione di essere “capi di loro stessi”. Poiché in questo caso i contenuti digitali si riferiscono al sesso, c’è in più il pericolo che i creatori debbano affrontare sfide ulteriori, come il rischio che i loro contenuti vengano rubati. In generale, i creatori si assumono tutti i rischi e ottengono alcuni guadagni, mentre OnlyFans si limita solo ai guadagni».

La fabbrica di influencer

Tolta la parte rilevante dei contenuti sessuali, con tutto quello che implica, in realtà alcune di queste problematiche si applicano più in generale al lavoro degli influencer. Ovvero, a un’altra delle professioni che, sempre ad uno sguardo distratto o ingenuo, potrebbe sembrare un modo per ottenere soldi facili e senza fatiche.

Più ancora dei social, esiste un osservatorio abbastanza fedele per inquadrare quei ragazzi che farebbero di tutto per ottenere più follower. È ancora una volta una sorta di reality show (definito docu-reality, per una sua pretesa di indagine sociale), proposto non da Netflix ma dalla Rai. Si chiama “Il Collegio” ed è ispirato a un format inglese. Alcuni ragazzi di oggi vivono l’esperienza di un collegio del passato, dovendo rinunciare alla tecnologia e dovendo sottostare alle regole ferree dell’educazione del tempo.

In realtà, lo straordinario successo della trasmissione, soprattutto nella fascia dei coetanei, ha reso in passato “Il Collegio” una sorta di fabbrica di influencer ancora minorenni. Alcuni concorrenti del passato – come ad esempio Alice De Bortoli, Davide Moccia, Ludovica Olgiati e Roberta Zacchero – sono riusciti effettivamente a costruirsi un certo seguito online, attirando poi aziende che hanno deciso di remunerarli in cambio di pubblicità. Esiste però poi un sottobosco di altri concorrenti che non hanno avuto la stessa visibilità e che cercano comunque, in tutti i modi, di ottenere il loro seguito su TikTok.

A una di loro, durante una puntata del Collegio, viene chiesto cosa vorrebbe fare da grande. Lei risponde candidamente: «Chiara Ferragni», quasi che non fosse un nome proprio, ma il sinonimo di una professione.

Il sindacato degli influencer

La stessa ambizione sembra condivisa da molti suoi coetanei sui social. Non tutti però riescono a guardare oltre la superficie, per capire cosa questa brama comporti davvero. «Molti ragazzi pensano che sia un’attività professionale che costa poca fatica. Ma per ottenere dei guadagni non basta accendere una webcam», dice Jacopo Ierussi. È il presidente e cofondatore di Assoinfluencer, la prima associazione di categoria in Italia riconosciuta dal ministero dello Sviluppo economico. È stata formata nel 2019, proponendosi come il sindacato dei creatori di contenuti online.

Fra i suoi obiettivi c’è proprio quello di promuovere un racconto più approfondito della professione, rivolgendosi innanzitutto ai più giovani. «Quando raggiungi la vetta sei un imprenditore a tutti gli effetti», dice Ierussi. «Assumi persone alle tue dipendenze, in un’azienda costruita sulla tua immagine. Significa che devi lavorare, e tanto». Ma anche chi è ancora agli inizi, e ambisce a una crescita, deve sottostare a un capo particolarmente esigente e volubile, talvolta difficile da interpretare: l’algoritmo.

Precari e scontenti

Ormai da qualche anno, diversi articoli accademici hanno sottolineato come la precarietà sia la caratteristica principale per chi cerca di vivere lavorando sui social. È una condizione che ha in comune con altre libere professioni (giornalismo incluso, ovviamente).

Già nel 2008, quando Facebook e YouTube erano agli albori della loro fortuna, Rosalind Gill e Andy Pratt, dell’Università di Londra, hanno teorizzato come ogni “professione creativa” sia caratterizzata da «una preponderanza di lavori temporanei, intermittenti e precari; orari lunghi e un modello bulimico di lavoro; il crollo o la cancellazione dei confini fra lavoro e tempo libero; una paga scarsa; alti livelli di mobilità; un attaccamento appassionato al lavoro e all’identità di lavoratore creativo; una mentalità che mischia atteggiamento da bohémien e imprenditorialità; ambienti di lavoro informali e forme distintive di socialità; esperienze di profonda insicurezza e ansia per trovare lavoro, guadagnare abbastanza soldi e “tenere il passo” in campi in rapida evoluzione».

Tutto questo si adatta perfettamente anche alla professione di influencer, che però ha anche altre sue peculiarità. Più di recente lo ha spiegato bene Zoë Glatt, un’antropologa digitale della London School of Economics and Politics, in un articolo pubblicato a metà del 2022 sull’International Journal Of Communication. «Il lavoro sulle piattaforme ha portato a un’intensificazione di queste logiche e allo stesso tempo a un’escalation della precarietà», sostiene Glatt. In questo, TikTok sembra aver peggiorato ancora la situazione.

Disuguaglianze

Ha infatti creato un nuovo modo per usare i social. Le persone, in genere, non seguono più i loro influencer preferiti. Si imbattono in quei video che l’algoritmo ha deciso di proporre, in una sorta di palinsesto personalizzato. Le regole non sono sempre facili da decifrare: chi è sulla vetta potrebbe crollare all’improvviso. Chi sta sotto potrebbe non riuscire mai a salire, in un sistema dalle forti disuguaglianze che rischiano di ampliarsi ulteriormente in futuro.

«Essere creatori di contenuti oggi significa imparare a fare montaggio, leggere le statistiche e capirne i dati, significa imparare il linguaggio dei motori di ricerca ed essere presenti su tutte le piattaforme anche quelle nuove, come Twitch, TikTok o Patreon», spiega Ierussi. «Molto spesso tutto questo non basta comunque».

Esistono molte vie per trasformare la propria creatività in un lavoro e sono tutte quante in salita. Ma non c’è altra professione, come quella degli influencer, così piena di equivoci e “cose non dette”. Quando si vendono apparenze, nessuno ha l’interesse nel mostrare le crepe nascoste dalle luci del palcoscenico virtuale.

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