Altro che grande abbuffata. Il rinnovo dei consigli di amministrazione di Enel, Eni, Poste e Leonardo, capace nelle settimane difficili della formazione del governo di compattare una sfilacciata maggioranza, si è rivelato un magro pasto per gli alleati di Giorgia Meloni.

Palazzo Chigi ha riservato alla questione delle grandi partecipate di stato la stessa attenzione dedicata nei primi mesi dell’esecutivo a mantenere fermi e prudenti i saldi di bilancio. Gli errori frutto dell’incompetenza e gli azzardi dell’estremismo possono trovare spazio in parlamento, possono essere fatti sulla pelle dei cittadini, italiani o stranieri, dal decreto Rave al decreto Ong, dallo scudo penale per gli evasori ai rinvii infiniti sulla concorrenza, ma quando si tratta di dossier su cui si giocano i rapporti con l’establishment la presidente del consiglio fa scattare il freno.

Meloni su questo è pragmatica, ha guardato più in là del suo stesso partito, anche andando a pescare nomi trasversali, su cui però è certa da domani di mettere il suo marchio. E ha affidato ai sottosegretari Giovanbattista Fazzolari e Alfredo Mantovano, il compito di smistare le carte e incoronare vinti e vincitori. Il risultato è stata la rivolta della Lega con l’accordo rinviato più volte. Mentre scriviamo non è ancora chiuso e Giancarlo Giorgetti, il ministro che sulle scelte deve mettere la firma, ha un volo previsto per Washington.

Meloni pigliatutto

Qualunque sia il risultato finale, la prima vincitrice è la presidente del consiglio: ha imposto le sue regole e a poche ore dall’accordo finale ha fatto pronunciare a Matteo Salvini la fatidica frase: «Chiuderemo in totale serenità», che non ha mai portato fortuna. Tra le aziende di primissimo peso, ha voluto mantenere due amministratori delegati uscenti su quattro: Matteo Del Fante alla guida di Poste, società i cui ricavi ormai dipendono per la maggior parte dalle attività finanziarie, e che gode del sostegno di buona parte dell’arco istituzionale e dell’apprezzamento del capo dello stato e ovviamente Claudio Descalzi, che supererà il record di Enrico Mattei, inaugurando il quarto mandato alla guida di Eni.

Ma ha anche spinto il solo manager che nel 2022 si era mosso per tempo partecipando alla kermesse di Fratelli d’Italia, Stefano Donnarumma, alla guida di Enel, la poltrona più ambita e occupata contro tutti. Contro le remore di Giancarlo Giorgetti, che hanno preso le sembianze di una consulenza giuridica di Sabino Cassasese, e contro i desiderata di Matteo Salvini. Ha sfidato su Leonardo anche il co-fondatore del suo partito, Guido Crosetto, che da ministro della Difesa è anche di fatto il primo committente del colosso degli armamenti e lo ha fatto sostenendo una scelta originale come quella di Roberto Cingolani, che di Leonardo è stato il responsabile dell’innovazione tecnologica, e che non ha mai guidato una società quotata e così strategica da tutti i punti di vista, persino di fronte a un’opzione gradita agli alleati americani come Maurizo Tucci.

Dicono che la volontà di Meloni di concedere poco derivi da una sindrome da accerchiamento, in questo caso, però, la compilazione del tetris di amministratori delegati e presidenti, è stata dettata anche da una seconda sindrome: quella dell’accreditamento che ha prevalso anche sulla possibilità di marchiare una svolta netta nella prima fila delle partecipate. Insomma, un mix calibrato tra la linea Fazzolari e quella Mantovano, tra i pochi di cui la premier si fida e affida.

Descalzi uno e trino

Ovviamente, vince Claudio Descalzi, impermeabile a tutto, che siano cambi di equilbri politici o conflitti di interesse: mai messo discussione, l’ad di Eni entrerà nel suo quarto mandato con più deleghe implicite di prima, ministro ombra dell’Energia, consigliere su tutti i dossier sulla transizione ecologica, soprattutto quelli nell’esclusivo interesse di Eni, efficientissimo plenipotenziario diplomatico, persino delegato alla gestione del dossier migranti, che la premier lega indissolubilmente e poco comprensibilmente all’altrettanto poco chiaro “piano Mattei per l’Africa”.

La vera novità, però, è che Descalzi questa volta si è seduto a pieno titolo nella fila di chi ha scelto e non di chi è stato scelto, rendendo ancora più esplicita la gigantesca anomalia dei suoi rapporti con il governo. Da fidatissimo consigliere della premier, l’amministratore delegato uscente e rientrante ha potuto porre veti sulla presidenza di Eni - no all’ingombrante Paolo Scaroni - e suggerire anche il nome dell’amministratore delegato dell’altro colosso strategico per il posizionamento internazionale dell’Italia, cioè Leonardo. Se infatti Lorenzo Mariani, l’amministratore delegato della partecipata Mbda che produce sistemi missilistici in società con gli altri colossi della difesa europei, è il nome di Crosetto, Cingolani è stato spinto anche da Descalzi. E non importa se l’ex ministro della Transizione di Leonardo conosce benissimo la direzione della ricerca e sviluppo, ma non la macchina produttiva, né l’aspetto finanziario..

Letta pontiere

Al di là delle trattative dell’ultimo giorno Lega e Forza Italia avevano già perso in partenza. Ma i leghisti perdono di più perché reclamavano di più. La concessione più grande di Meloni è stata alla galassia berlusconiana, incarnata soprattutto dal sempiterno Gianni Letta. A lui si deve se alla presidenza di Enel o di Poste è stato anche solo preso in considerazione Paolo Scaroni, pur con alle spalle l’amico Luigi Bisignani e dopo che il paese ha imboccato una strada opposta rispetto a quella che aveva impresso all’Eni, legandola a doppia mandata alla russa Gazprom, con contratti nemmeno vantaggiosi.

Salvini ridimensionato

Salvini è già stato accontentato con la presidenza di Mps, perché il groviglio di Siena resta groviglio anche se ha cambiato colore politico, con le nomine, cruciali per il Pnrr, in Rfi, e con il nuovo giocattolo del ponte sullo Stretto. Ma ha perso la battaglia per piazzare Flavio Cattaneo come ad dell’Enel e si può consolare con poco, cioè le presidenze. Sia l’ala di FI più lontana dalla premier, leggi Ronzulli, sia il leader leghista vogliono almeno un nome di “partito”, che si tratti di Stefania Prestigiacomo o di Antonio Rinaldi. Anche perché pure la nomina dell’ex comandante generale della guardia di finanza, Giuseppe Zafarana, sarebbe in fin dei conti targata Meloni, che con il generale ha costruito ottime relazioni.

Certo, per far quadrare tutto, la premier ha messo in secondo piano le candidature femminili. Ma la presidente del consiglio ha sempre considerato stucchevole la formula di Matteo Renzi che destinava gli uomini ai ruoli operativi controbilanciando le scelte a livello di immagine con presidenti donne. Piuttosto meglio una sola donna - c’è l’ipotesi Giuseppina Di Foggia in arrivo da Nokia Italia per guidare Terna – ma che comandi davvero e con pochi compromessi. Questa, del resto, è la ricetta che la premier ha fatto ingoiare anche ai partner di governo.

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