«Oste, com’è il vino?». Recuperare il popolare proverbio è forse il modo più efficace per raccontare la vicenda del Tavolo tecnico in materia di concessioni demaniali convocato dalla presidenza del Consiglio che si è occupato di chiarire finalmente la situazione delle spiagge in Italia.
Quale miglior modo di risolvere l’annoso conflitto con Bruxelles sulla diversa interpretazione rispetto all’assegnazione di una risorsa, che qualcuno considera limitata, se non chiedere direttamente ai balneari se è davvero così.

I risultati 

Il 6 ottobre sono stati resi noti i risultati del lavoro svolto e, con giubilo generale, si è scoperto che in Italia non esiste un problema di scarsità.
Oltre il 67 per cento della costa è ancora libero e dunque c’è spazio in abbondanza per nuovi stabilimenti e per nuovi operatori da tutta Europa.

Altro che direttiva Bolkestein e corte di giustizia, necessità di gare. C’è stato in tutti questi anni un grande, incredibile, equivoco che ora finalmente è risolto. Questa vicenda merita attenzione, perché rappresenta l’ultimo stadio della degenerazione dei rapporti tra politica e lobby.
A farne parte non sono stati chiamati i comuni, che pure sono coloro che hanno un quadro della situazione perché rilasciano le concessioni. E neanche enti di ricerca, come Ispra o Enea, Cnr.

E a che serviva? Meglio coinvolgere direttamente le associazioni dei balneari e confrontarsi con loro. Tutte le associazioni di categoria del settore, tanto che pare non sia stato semplice gestire i lavori, con un’ultima riunione a cui hanno partecipato talmente tanti rappresentanti e avvocati in rappresentanza dei diversi sindacati di categoria che ci sono stati problemi di spazi.

Uno studio inutile

Il merito della vicenda, in questo caso conta persino poco. Questo studio è semplicemente inutile rispetto all’annoso confronto con la Commissione europea che da anni segnala l’illegittimità di concessioni senza scadenza affidate direttamente agli operatori. Ovviamente non è stato reso pubblico – c’è chi dice per la preoccupazione da parte di alcuni funzionari ministeriali di dover poi spiegare la sensazionale scoperta, rispetto a una situazione che non ha paragoni al mondo – ma sarà interessante verificare se davvero verrà portato dal ministro degli Affari europei Raffaele Fitto all’attenzione della Commissione Ue.

Del resto, la situazione delle spiagge in concessione in Italia la può verificare chiunque aprendo uno dei tanti siti internet con foto satellitari della costa italiana. È la geografia il nodo della questione secondo i balneari. L’equivoco sta in una incorretta interpretazione dei tratti di costa ancora liberi, che sarebbero moltissimi.
Ad esempio, non è vero che in Liguria, Marche, Romagna e Campania non vi siano più tratti liberi per potersi sdraiare gratuitamente e liberamente. Perché, ad esempio, tanti tratti montani liguri sul mare, ma anche al Monte Conero e nel delta del Po, come quelli rocciosi del Cilento e a picco della bellissima Costiera Amalfitana, non ospitano stabilimenti. Per non parlare poi, sempre in quelle regioni, dei tratti di costa non balneabili e di quelli cementificati.

A questi numeri i balneari aggiungono la considerazione che in Sardegna solo una quota minima delle spiagge è in concessione e ancora molti tratti della Calabria sono senza stabilimenti balneari. E non si capisce come sia leso il principio di concorrenza quando si può tranquillamente chiedere di aprirne uno  nella lunga e bella spiaggia di Murtas Padru, in Provincia di Nuoro, lasciando perdere la Versilia, il povero Briatore e Santanchè. Dove, oltretutto, nessuno si lamenta del fatto che oltre il 90 per cento della costa è in concessione.

Forse sta proprio qui il punto più penoso di questa vicenda. Ossia che solo la questione concorrenza sia al centro del dibattito giuridico e politico. Perché la trave sta nel fatto che nel 2023 in Italia, per chi non è disponibile a pagare o non può permetterselo, è diventato impossibile sdraiarsi a prendere il sole in larga parte delle spiagge italiane. Che sono pur sempre un bene pubblico inalienabile.

La capitolazione della politica

ANSA

Questa vicenda viaggia parallela con quella che riguarda le concessioni per i taxi. In entrambi i casi la questione riguarda le regole che riguardano attività di impresa che operano all’interno di un contesto di beni e interessi pubblici da salvaguardare. Nel caso dei taxi, è la definizione di servizio pubblico non di linea che motiva i vantaggi di cui beneficiano le auto bianche. Che, proprio per questo, possono percorrere corsie riservate, avere spazi di sosta dedicati gratuiti e, ricordiamolo, non pagare l’Iva.

Questa cosa spesso viene dimenticata, ma mentre per i servizi delle aziende di trasporto pubblico e degli Ncc si paga un’imposta pari al 10 per cento e per le auto, gli scooter, le bici, i monopattini in sharing il 22 per cento, i taxi sono praticamente l’unica categoria per la quale non è previsto che si paghi l’imposta. Inoltre, i contatori che troviamo sulle auto non sono come i registratori di cassa delle altre attività.

Non sono collegati all’agenzia dell’entrate, tant’è che la ricevuta viene fatta cartacea da un blocchetto come negli anni Novanta capitava in tanti negozi. Altra anomalia che li differenzia dagli autobus è che mentre questi nelle città hanno oramai un dispositivo gps per verificare dove sono, utile per le comunicazioni con gli utenti e migliorare il servizio, questa cosa non vale per i taxi. E sia per i controlli fiscali che per quelli sull’organizzazione del servizio non c’è alcuna disponibilità ad aprire un confronto su come cambiare una situazione indubbiamente anomala.

La surreale situazione di Roma e Milano, di cui a lungo si è occupata la cronaca in queste settimane perché nelle stazioni non si trovano taxi, sta tutta qui.
I sindaci non possono dare indicazioni ai taxi sulle aree strategiche della città dove garantire almeno un minimo di offerta di servizio, e neanche possono sapere dove sono quelli in circolazione. Il paradosso è che neanche con migliaia di nuove concessioni si potrà garantire che nei prossimi anni ci saranno i taxi alla stazione Termini o a quella Centrale, perché saranno liberi di decidere se andarci o meno. E guai a intervenire se non si vuole che le città siano paralizzate.

Con una politica così debole è normale che chi è portatore di questi interessi punti a stravincere, che possa permettersi di chiudere a qualsiasi trattativa. Quando si fanno i confronti tra i partiti di oggi e quelli della cosiddetta prima repubblica, è a queste situazioni che bisogna guardare. I partiti di allora avevano tanti difetti, ma il primato della politica nelle decisioni non era in discussione. Ministri e parlamentari avrebbero affrontato temi del genere tra sicure contraddizioni e certamente tenendo conto delle richieste di balneari e tassisti, ma dentro un ragionamento politico.
Che vuol dire contemperare esigenze e aspettative, mediare tra le posizioni, proporre una sintesi tra interessi generali e invece di parte.

La debolezza dei partiti oggi è tale che si ha persino paura di occuparsi di questi temi, parlarne in un confronto pubblico, elaborare un pensiero o avere un’opinione autonoma. Il paradosso è che ci troviamo di fronte a lobby sicuramente organizzate ma che rappresentano davvero poca cosa a fronte di tutto il resto dei cittadini italiani e dei loro diritti che qualcuno dovrà pure difendere.

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