Dalla recente analisi dell’Istat sul mercato del lavoro emerge in modo chiaro che, rispetto ai lavoratori con contratti a tempo indeterminato e full-time, gli occupati a termine e a tempo parziale percepiscono in media un reddito equivalente più basso e devono inoltre fare i conti con una maggiore instabilità lavorativa. La maggior parte dei dipendenti assunti a tempo determinato si colloca infatti nelle fasce reddituali medio-basse. Nello specifico, il 9,9 per cento dei lavoratori temporanei si posiziona nella seconda fascia di reddito più bassa, mentre il 9,8 per cento nella terza fascia.

L’analisi mostra come la discontinuità lavorativa sia un tratto comune sia dei lavoratori temporanei che degli occupati part-time. Solo il 40 per cento dei dipendenti a termine ha infatti percepito un reddito da lavoro in modo continuativo tra il 2015 e il 2021. Analogamente, circa la metà dei lavoratori impiegati con contratto part-time ha dovuto far fronte a periodi di instabilità lavorativa durante lo stesso periodo. Queste condizioni non dovrebbero apparire scontate, ma lo sono in un paese dove le condizioni dei lavoratori temporanei e part-time sono caratterizzate da particolari disuguaglianze rispetto ai lavoratori “standard”.

Secondo i dati del rapporto annuale Istat riferito al 2022, i lavoratori con contratto a tempo determinato percepiscono una retribuzione oraria inferiore del 26,6 per cento rispetto ai colleghi impiegati a tempo indeterminato. Se si considerano poi le retribuzioni su base annuale, questo svantaggio retributivo si amplifica ulteriormente, arrivando a sfiorare il 30 per cento.

La situazione diventa ancor più critica se si tiene conto anche dell’orario di lavoro. Il divario a livello retributivo tra un lavoratore temporaneo part-time e un lavoratore a tempo indeterminato full-time raggiunge infatti il 35,2 per cento in termini di retribuzione oraria e quasi il 65 per cento su base annuale. In termini più concreti, i dipendenti part-time con contratto a termine guadagnano in media 9,6 euro all’ora, 5,2 euro in meno rispetto ai lavoratori full-time assunti a tempo indeterminato.

Questo scenario evidenzia come l’utilizzo dei contratti a tempo determinato e part-time si sia ampiamente discostato dalle finalità originarie di questi strumenti. Il ricorso al tempo determinato, nato per agevolare l’ingresso nel mercato del lavoro, e al part-time, concepito per garantire flessibilità e conciliazione ai lavoratori, sembra essere infatti diventato un processo distorto e perverso, tutt’altro che virtuoso.

Aumenta la diseguaglianza

Dai dati emerge inoltre come l’utilizzo di contratti atipici, quali il tempo determinato e il part-time, sia particolarmente diffuso tra alcuni gruppi specifici di lavoratori. Sono infatti i giovani, le donne, gli stranieri, i residenti nel Mezzogiorno e gli individui con un basso livello di istruzione a risultare maggiormente soggetti all’applicazione di queste tipologie contrattuali. Un dato che si intreccia con un’altra criticità messa in luce dalle stesse analisi, quella della vulnerabilità economica di questi gruppi.

I dati rivelano infatti come siano proprio queste categorie di lavoratori, sottoposti con più frequenza a contratti a termine e a tempo parziale, a percepire anche le retribuzioni mediamente più basse.

Si tratta dunque di un circolo vizioso in cui forme di lavoro non standard si legano a situazioni di povertà lavorativa e colpiscono segmenti specifici della popolazione.

Nel complesso, emerge un quadro nel quale il peso delle condizioni contrattuali, e delle tutele a esse connesse, ha un forte impatto sulla formazione del reddito, nonché sulla stabilità che caratterizza la loro vita lavorativa.

Tutto questo suggerisce dove concentrare le policy, sia dal punto di vista normativo e della contrattazione collettiva sia da quello della singola impresa, con l’obiettivo di garantire una maggiore equità di trattamento tra i lavoratori, indipendentemente dal tipo di contratto applicato e dalle loro mansioni. Solo in questo modo sarà possibile prevenire l’acuirsi di disuguaglianze economiche e sociali e ridurre il rischio – ormai sempre più diffuso – di situazioni di povertà lavorativa.

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