Dopo aver lungamente sostenuto le politiche restrittive per ridurre il debito, ora anche il Fondo monetario internazionale (Fmi) punta sulla crescita per riassorbirlo; il buon senso se ne rallegra.

Eppure il premio Nobel 2021 per la Fisica, Giorgio Parisi, ha detto in parlamento: «Il Pil dei singoli paesi sta alla base delle decisioni politiche e la missione dei governi sembra essere quella di aumentarlo il più possibile. Obiettivo che però è in profondo contrasto con l’arresto del riscaldamento climatico».

La decrescita felice è una chimera, ma anche perseguire la crescita infinita è insensato, pur se in tanti, vissuti al motto “citius, altius, fortius” stentiamo a riconoscerlo. Visti i deleteri effetti di tale corsa sul futuro della specie umana, anche qui il buon senso concorda; come uscirne?

Misure aspre e ardue

Anziché traslocare tutti su Marte, come fantastica di fare Elon Musk grazie ai suoi razzi, è saggio fare ben altre cose, certo molto aspre e ardue. Che vadano posti limiti allo sfruttamento del pianeta, pare già superati, è certo.

Il piccolo problema, in democrazia, è come convincere gli elettori che si tratta di salvare la vita umana; a rischiare non è la terra, che di noi può tornare a fare a meno, come ha fatto per miliardi di anni, e le energie alternative non basteranno a salvarci. 

Come ora dice il Fmi, il modo “sano” per riassorbire il debito è la crescita, ma per perseguirla, anticipando consumi e investimenti, bisogna fare nuovo debito, quello stesso che con lo sviluppo vorremmo ridurre.

È dagli anni Ottanta che tiriamo al massimo questa leva, nel privato e nel pubblico, prendendo a prestito risorse dal futuro. Da allora le imprese tirano al massimo il leverage (già teorizzato nel decennio prima) per aumentare gli utili in percentuale sul capitale, così ridotto; ed è sempre negli anni Ottanta che il debito pubblico italiano raddoppia rispetto al Pil.

Ma davvero si può disinnescare l’incentivo verso la catastrofe insito nel tiraggio della leva? L’obiettivo pare sovrumano, per diverse ragioni. Anzitutto perché la popolazione continua a crescere, anche se, aumentando il benessere medio, ad un certo punto si fermerà.

Resta da vedere se gli squilibri economici e ambientali (specialmente critica è la scarsezza d’acqua in vaste aree) non ci faranno implodere prima.

C’è di più, e alla lettera; aver più di tutto, di soldi, di auto, di vita, perfino migliorare in qualsiasi arte o lavoro, è una spinta irresistibile per l’homo faber. Abbiamo sempre visto la Terra come un’inesauribile miniera da sfruttare, e in fretta. Non fa parte del nostro retaggio la saggezza dei nativi americani, per cui la terra non è nostra, l’abbiamo solo presa a prestito dai figli: li abbiamo infatti sterminati, facendo anche delle loro terre le nostre miniere.

Tanto più è forte la spinta alla crescita infinita in quanti s’affacciano solo ora al benessere; per loro non possiamo essere noi occidentali, avendone finora goduto quasi in esclusiva i frutti, a fermare ora il giochino.

Inflazione

Non è necessario rimborsare i grandi debiti pubblici, che storicamente non vengono rimborsati; a parte le rare, traumatiche “ristrutturazioni”, essi sono assorbiti dall'inflazione, dalla crescita o dalle due assieme.

Noi vediamo la prima via come malata, la seconda come sana, perché riassorbe “virtuosamente” i debiti. La prospettiva muta se consideriamo le conseguenze della crescita infinita; l’inflazione fa danni grandi, e in Germania sfociò nella deflazione, levatrice del nazismo, ma non mette a rischio la specie umana.

Non paia ciò una sterile critica ai grandi decisori della politica e dell'economia; nessuno conosce vere alternative al debito nuovo come strumento per ridurre il vecchio, ma come interrompere il circolo vizioso?

La grande nave corre nella notte, consci i comandanti che la rotta giusta è ignota e forse neanche c’è; iniziano a sospettarlo anche equipaggio e passeggeri. 

Non ci sono soluzioni facili, ma il problema va pur identificato e posto. Nelle nostre società ogni bene, ogni indice deve solo crescere di valore. Non riusciamo a immaginare un mondo in cui agli investitori non arridano continue rivalutazioni; che ne sarebbe altrimenti del nostro capitalismo democratico, il cui capolavoro è aver cointeressato le masse al suo successo fermando il marxismo?

I fondi pensione Usa allevieranno la vecchiaia degli iscritti solo se i loro investimenti si rivaluteranno sempre; e là le grandi imprese han già ricominciato a indebitarsi per comprare le proprie azioni, andando oltre ogni precedente record, così accrescendo l’utile per azione, quindi il prezzo di mercato (e non da ultimo, i compensi al management).

I buyback hanno raggiunto gli 870 miliardi di dollari nei primi 9 mesi del 2021; anche i dividendi del terzo trimestre segnano nuovi massimi. Se si ferma la bici cadiamo tutti giù per terra.

Beni “non rivali”

Uno spiraglio nello scenario lo apre Paul Romer, premio Nobel per l’Economia nel 2019 per aver mostrato, in uno studio risalente al 1990, gli straordinari benefici alla produttività legati allo sfruttamento delle idee nuove.

A differenza di altri beni, esse sono sfruttabili indefinitamente in quanto “non rivali”; il loro consumo da parte mia non ne riduce la disponibilità per gli altri. Romer forse pensava soprattutto all’informatica, che già allora cominciava a cambiare il mondo, i cui effetti possono non essere puntualmente riflessi nei numeri dell’economia.

Zoom e simili poi limitano i viaggi, quindi il consumo di energia. Per valutarne gli effetti sul nostro tema, dovremmo però conoscere il vero bilancio energetico dell’enorme sviluppo dell'informatica e di quanto le sta intorno; secondo recenti studi esse divorano quantità enormi di energia e minerali rari, beni questi pur sempre “rivali”.

Essi stimano che nel 2025 oltre il 20 per cento dell’elettricità sarà assorbito da miliardi di apparecchi collegati a Internet, cui sarà attribuibile fra il 5 e il 7 per cento delle emissioni globali di carbonio, paragonabili a quelle di tutto il traffico aereo.

Molte società antiche conoscevano il Giubileo, in cui si condonavano i debiti; la preghiera chiede al “Padre Nostro” di rimettere «a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori», pratica evidentemente ben nota allora, e abbastanza semplice in società rurali, ove la sola ricchezza era la proprietà terriera.

Il Giubileo non mandava fallito nessuno, i possidenti rinunciavano ai crediti, ma non alle proprietà. La rivoluzione industriale ha disancorato la ricchezza dalla terra, migliorando molto il tenore di vita di grandi masse.

La finanziarizzazione esagerata ha fatto il resto, oggi la gran massa della ricchezza è mobiliare. Un moderno Giubileo scatenerebbe una reazione a catena simile a quella della fusione dell’atomo, manderebbe in rovina miliardi di persone che in quei titoli, direttamente o tramite intermediari, hanno investito.

Esso potrebbe magari avvantaggiare quel mondo che arriva ora al benessere, avendo consumato molte meno risorse; difficilmente avranno però ragione i fautori della Modern Monetary Theory, per cui la vera alternativa sta, per i debiti pubblici, nella “pressa elettronica” delle banche centrali.

Resta, per riassorbire il debito, l’inflazione, che punirebbe i creditori, ma certo meno del Giubileo; anche una patrimoniale servirebbe allo scopo e, davanti alle alternative citate, parrebbe perfino un bell’affare. 

Crescita buona e cattiva

Un problema planetario non può avere soluzioni nazionali, eppure una soluzione globale è impensabile. Bisognerebbe che fossero tutti, da Washington a Pechino, a Mosca, a Riad, davvero convinti che la casa sta bruciando; solo allora, buttare dalla finestra i preziosi mobili sarebbe sempre meglio che morire bruciati, o “deportati” su Marte da Musk!

Non si può far altro che richiamare l’attenzione sul gran peso del circolo vizioso debito-crescita; magari fra le capitali “pesanti” ci fosse anche Bruxelles, piccolo centro politico di un gigante economico.

La crescita, lo sappiamo, non è certo un bene in sé; oltre a quella “buona”, c’è anche la cattiva, lo ricorda il citatissimo discorso di Robert Kennedy alla Kansas University (1968). C’è pure quella che spreca risorse e, lungi dal preparare il futuro, lo divora: il debito pubblico finito in cene in pizzeria, come disse il grande Beniamino Andreatta.

Ora abbiamo il Pnrr e speriamo che non prevalgano la «corruzione, la stupidità, gli interessi costituiti» (così Mario Draghi in parlamento). Per gli investimenti, non solo materiali, dovremmo redigere una scala di priorità, determinata anche in base a rigorose analisi quantitative, per convincere i cittadini; se per me istruzione e ricerca vengono prima di tutto, altri avranno diverse priorità.

Una volta fissate queste, bisognerebbe poi eseguire, e bene, quanto deciso. Di questo dovrebbe occuparsi la politica, ma forse sono temi bagatellari, meglio strologare sul prossimo inquilino del Quirinale o buttar la palla in tribuna. Se alcuni si lagnano perché Draghi ha portato via la palla, tanti sono lieti che tocchi a lui levare le castagne dal fuoco.​​​​​​​​​​​​​​

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