C’era attesa per le riunioni della Federal Reserve e della Bce delle scorse settimane perché avrebbero dovuto chiarire quale dinamica dell’inflazione prevedessero dalle banche centrali da qui in avanti, e di conseguenza la politica monetaria nel seguito di quest’anno e nel prossimo, tenuto anche conto che non conosciamo ancora gli effetti dell’aumento dei tassi: il più rapido e forte dagli anni Ottanta.

Insomma, il mercato si aspettava di quantificare il rischio di recessione creato dalla lotta all’inflazione. Le banche centrali non lo hanno chiarito; anzi, hanno aumentato confusione e incertezza, almeno stando alla reazione di mercati e analisti.

Fed e Bce hanno presentato proiezioni per le rispettive economie nei prossimi tre anni radicalmente diverse, con dinamiche dell’inflazione attesa differenti, nonostante attuino un’identica politica monetaria. Qualcosa non quadra.

Quanto basta per creare tre ordini di incertezza: credibilità delle previsioni macroeconomiche delle banche centrali; coerenza della politica dei tassi annunciata con le loro stesse previsioni; e mancanza di un valido modello per capire l’inflazione.

Le previsioni della Fed

La Federal Reserve ha rivisto al rialzo la crescita del Pil per quest’anno, dall’1 per cento al 2,1, e prevede nel 2024 e 2025 un’economia che si espande poco sotto il trend, all’1,5 e 1,8. Per la Fed, niente recessione ma, più che soft questo è un atterraggio regolare: la disoccupazione toccherà un massimo del 4,1 per cento (rivisto al ribasso dal 4,5 di giugno), non certo un mercato del lavoro da recessione, con l’inflazione (deflatore dei prezzi al consumo) che scende dal 3,3 di fine anno al 2,5 e 2,2 nei successivi due, in linea con gli obiettivi.

Lo scenario è idilliaco, ma ha creato confusione e dubbi, evidenziati dall’aumento della volatilità di tutte le attività finanziarie, a causa delle proiezioni dell’andamento dei tassi: in media ci si attende che il tasso sui Federal Funds arrivi al 5,6 per cento a fine anno, con ben 12 membri del Board su 19 che hanno dichiarato di attendersi un ulteriore aumento dei tassi a dicembre, per poi scendere a 5,1 a fine 2024 (in rialzo dal 4,6 di giugno), e 3,9 a fine 2025 (in rialzo dal 3,4).

Quel che conta per determinare il grado di restrizione finanziaria sono i tassi reali, al netto dell’inflazione: se la Fed prevede prevede che la crescita dei prezzi al consumo sia in rapida discesa, perché vuole mantenere i tassi reali così elevati così a lungo, implicando un livello di questi a fine 2023 (2,3 per cento) coerente con un forte rallentamento economico (mentre qui l’economia accelera), e addirittura in aumento al 2,6 per cento a fine 2024? Un’ovvia contraddizione: se la Fed mantiene la politica dei tassi attesa dalla media dei membri del Board, la crescita e la disoccupazione delle scenario della Fed non sono credibili, e il rallentamento sarà più forte del previsto; ma se è la politica dei tassi a non essere credibile, con la prevista discesa dell’inflazione la Fed taglierà i tassi di più e più rapidamente per scongiurare un rischio di recessione tanto inutile quanto improvvida, con le elezioni presidenziali in vista.

Le differenti implicazioni per gli investitori sono ovvie. Ma la prima reazione dei mercati è stata di vendere borse e titoli di stato (i rendimenti si muovono inversamente coi prezzi): per ora si crede dunque nella politica dei tassi alti e a lungo, che si teme causerà un forte rallentamento non previsto dalla banca centrale. L’unica certezza è che è aumentata l’incertezza.

Lo scenario della Bce

Drasticamente diverso lo scenario della Bce. Qui le previsioni di crescita sono state riviste al ribasso, con il Pil che sale dello 0,7 per cento quest’anno, dell’1 e 1,5 nei due successivi. Ma, a giudicare dalle ultime indagini su attività economica, ordinativi e fiducia, forse la Bce eccede in ottimismo.

Il cambiamento di scenario da giugno a settembre, nelle previsioni delle banche centrali, è notevole: gli Usa accelerano da 1 a 2,1e l’Europa rallenta da 0,9 a 0,7; a giugno si prevedeva che nel 2024 l’Europa crescesse all’1,5 contro l’1 americano, ma oggi i ruoli sono invertiti.

Una delle due banche centrali sbaglia previsioni. Le previsioni della Bce differiscono anche in tema di inflazione, rivista al rialzo sia quest’anno (da 5,4 al 5,6) sia nel 2024 (dal 3 al 3,2), per poi crollare al 2,1 nel 2025. In Europa l’inflazione rimane più elevata più a lungo che negli Usa, nonostante la forte discrepanza di crescita economica. Eppure, nonostante la diversità delle previsioni, la politica dei tassi alti e a lungo della Bce è sostanzialmente la stessa.

Anche se la riduzione titoli in portafoglio della Bce procede molto più lentamente che negli Usa, prevedendo di reinvestire i titoli in scadenza del programma PEEP per tutto il 2024, negli ultimi tre mesi la crescita della moneta in Europa è negativa, quella del credito a imprese e famiglie è in forte rallentamento, e il suo costo in rialzo.

Inoltre, a differenza della Fed che non commenta mai la politica fiscale del governo, la Bce auspica il ritorno alla «prudenza fiscale», «riducendo i sostegni garantiti contro il caro energia e gradualmente abbattendo i livelli elevati del debito pubblico», auspicando che la politica fiscale si allinei a quella monetaria in senso restrittivo.

L’opposto di quanto accede negli Usa dove è in atto un massiccio aumento della spesa pubblica a sostegno della transizione energetica, delle infrastrutture, della re-industrializzazione e della difesa. Non sorprende che in Europa i mercati abbiano reagito vendendo azioni e titoli di stato in previsione di un rischio recessione in aumento.

Forti però i dubbi che la Bce riesca a mantenere la politica dei tassi alti, che ha causato un forte deprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro; che a sua volta pregiudica la discesa dell’inflazione visto che fonti energetiche e materie prime si pagano in dollari. Anche in Europa l’unica certezza è che è aumentata l’incertezza.

Chi ha sbagliato?

La volatilità dei mercati finanziari causata dall’incertezza, a sua volta rende più incerte le decisioni di investimento e di consumo di beni durevoli, pregiudicando la crescita; ma è l’apparente mancanza di un valido modello per comprendere le cause e la dinamica dell’inflazione ad aumentare ulteriormente, l’insicurezza.

Chi negli Usa aveva previsto l’esplosione dell’inflazione, basandosi sull’approccio tradizionale dell’eccesso di domanda causato dall’eccezionalità delle politiche espansive per fronteggiare pandemia, non sa spiegarsi come l’inflazione possa scendere oggi così rapidamente e senza causare disoccupazione o crollo dell’attività economica.

Mentre chi è in grado di spiegarla con la graduale eliminazione delle tante distorsioni e cambiamenti strutturali che la pandemia ha apportato al mercato del lavoro, dei servizi e delle filiere produttive, non era stato in grado di prevederne la rapida esplosione.

Né abbiamo una spiegazione convincente del perché l’inflazione in Europa, con molta meno crescita e una politica monetaria analoga, sia più elevata, radicata e persistente che negli Usa. Come risultano rapidamente obsolete le varie spiegazioni di volta in volta avanzate per le anomalie dell’inflazione: che dire per esempio dei margini delle imprese additati fono a poco tempo fa come prima fonte di inflazione, di fronte allo storico sciopero dei lavoratori che ha colpito contemporaneamente tutte le case automobilistiche americane con richieste di aumenti anche del 30-40 per cento?

Ma se le banche centrali non hanno un valido modello per spiegare e prevedere l’inflazione, e lo scenario economico da loro previsto è drasticamente diverso tra Europa e Stati Uniti, è possibile che la stessa politica dei tassi possa riportare l’inflazione al 2 per cento su entrambe le sponde dell’Atlantico? In tutta evidenza, no. Di qui l’incertezza dei mercati, che si trasmette a consumatori e imprenditori. Solo a inizio 2024 si potrà forse cominciare a capire chi ha sbagliato.

© Riproduzione riservata