Nell’opera teatrale Aspettando Godot di Samuel Beckett, due uomini - Estagone e Vladimiro - apparentemente senzatetto, aspettano una persona chiamata Godot: chi sia e per quale ragione lo aspettino non si sa. Nell’attesa, discorrono di svariati argomenti che rasentano la banalità, lamentandosi della fame e del freddo, senza che nulla accada; l’angoscia, piano piano, si impadronisce degli spettatori.

Godot è diventato sinonimo di una situazione esistenziale di ansia, nell’aspettativa di un evento significativo, che pare imminente, ma non arriva mai. Verso la fine, entra un ragazzo che annuncia che Godot « oggi non verrà, verrà domani ». Un po’ come fanno i membri della Bce, ripetendo ogni giorno che il taglio dei tassi è imminente, ma non oggi, forse domani, lasciando in ambasce tutti gli Estagone che hanno un mutuo a tasso variabile e i Vladimiro preoccupati che il costo del credito affossi le loro aziende. Peccato che la Bce non sia Beckett e per noi «spettatori », la recita non sia un capolavoro, ma una noiosa cantilena.

La guerra all’inflazione è vinta. Il costo della vita armonizzato nell’Eurozona è in continua e stabile discesa (2,6 per cento a febbraio); lo è anche il dato «core », depurato dei costi di energia e alimentare (3,3 per cento). La Bce preferisce il dato «core », anche se i cittadini non sanno cosa sia, perché è più stabile e predirrebbe meglio il trend della crescita dei prezzi: quindi saremmo ancora lontani dal mitico 2 per cento.

Numeri e realtà

Il dato «core » a sua volta è composto dal prezzo dei beni di consumo e quello dei servizi: e sono quest’ultimi la fonte di inflazione, essendo cresciuti del 3,9 per cento contro l’1,6 dei beni di consumo. Ma mentre i prezzi di quest’ultimi sono realistici perché rivisti di frequente, rispecchiando le condizioni del mercato di domanda e offerta, non così molti dei servizi (istruzione, assicurazioni, sanità, raccolta rifiuti, servizi venduti in abbonamento, affitti, e canoni di locazione vari) rivisti solo sporadicamente, dando così l’impressione che l’inflazione sia più ostinata di quanto sia.

La Bce sembra concentrarsi eccessivamente sul livello dell’inflazione: 2,6 per cento è maggiore di 2 per cento, quindi si deve aspettare ancora per avere la certezza su una dinamica dei prezzi, che invece è già chiara visto che negli ultimi sei mesi il dato annualizzato, comunque lo si misuri, è quasi nullo (più 0,65 per cento la crescita dell’indice l’indice armonizzato e più 0,50 il «core»).

C’è, naturalmente, un problema di stagionalità nei dati infra annuali, ma il quadro è questo. Concentrandosi sul singolo numero mensile inoltre si da un’importanza eccessiva a fattori contingenti e pertanto temporanei, quali per esempio i prezzi dei biglietti aerei per le vacanze o l’incremento dei noli per via della guerra nel Mar Rosso, perdendo di vista la vera dinamica.

Infine, i prezzi alla produzione, di mercato e non soggetti a distorsioni varie, sono in discesa di quasi il 9 per cento.

Salari e imprese

La crescita dei salari non rischia di trasformare l’ultimo miglio in una maratona per almeno due ragioni. L’argomento principe della Bce è che le imprese scaricherebbero a valle il maggior costo del lavoro, ma lo potrebbero fare solo se la domanda dei beni fosse insensibile all’aumento dei prezzi: improbabile in un momento di crescita anemica, redditi falcidiati da due anni di inflazione e caduta del commercio internazionale.

Inoltre si fa spesso confusione tra crescita dei salari e costo del lavoro per le imprese. Facciamo un esempio: immaginiamo che un bar venda 60 spritz al giorno a 8 euro l’uno, per un ricavo di 480 euro; e che abbia tre dipendenti ognuno con un salario di 104 euro al giorno (38.000 euro l’anno), quindi un margine di 168 euro al giorno.

Se i clienti aumentassero e gli spritz venduti salissero a 66, con il prezzo che rimane 8 euro, anche se i dipendenti ottenessero un aumento del 6 per cento (che spaventerebbe la Bce), il proprietario sarebbe felice perché il suo margine crescerebbe comunque del 17 per cento: i salari sarebbero sì aumentati, ma ogni dipendente servirebbe più spritz. Si chiama produttività, che la Bce non sembra tenerla in debito conto.

Per la Bce, il tasso obiettivo del 2 per cento, dichiarato imprescindibile, è diventato un vincolo autoimposto. Ma non esiste alcuna teorica che lo giustifichi.

Questo tasso fu scelto nel 1989 in modo pragmatico dalla Banca Centrale della Nuova Zelanda, la prima ad adottare un obiettivo di inflazione: poiché il tasso obiettivo è la media di tanti prezzi, non lo voleva troppo alto, ma neanche troppo vicino allo zero per evitare il rischio di deflazione di alcuni componente del paniere.

Da allora è diventato un numero magico. Ma deglobalizzazione, caduta del commercio internazionale, rischi geopolitici, maggiori spese per la difesa, costi della transizione ambientale, invecchiamento delle popolazione, sarebbero tutte ragioni valide per rivedere al rialzo l’obiettivo del 2 per cento nel lungo periodo.

Ironicamente la Nuova Zelanda ha abbandonato il 2 a favore di una banda di oscillazione fra zero e 3 per cento.

L’industria delle previsioni

La cacofonia di dichiarazioni da parte dei membri della Bce ha alimentato un’industria delle previsioni: quando, e di quanto, la Bce taglierà i tassi? La più gettonata: due tagli a giugno e luglio, seguita da altri due entro fine anno, portando il tasso sui depositi Bce dal 4 al 3 per cento, e quello dei suoi finanziamenti al 3,15, visto il recente cambiamento delle modalità operative della banca centrale.

Le aspettative sono per un’ulteriore riduzione di mezzo punto nel 2025, portando i tassi Bce al 2,5 per cento: mezzo punto percentuale sopra l’inflazione, coerente con il potenziale di crescita europeo. L’era dei tassi nulli è finita per sempre.

Il mercato azionario ha ormai scontato la discesa dei tassi, e poco importa se giugno o settembre perché ritiene, a ragione, che il rischio di una recessione sia scongiurato: margini e redditività rimangono elevati e si guarda alla crescita degli utili nella seconda parte dell’anno e nel prossimo. Così le Borse reagiscono sempre di meno a ogni dato sull’inflazione e al fiume di dichiarazioni dei banchieri centrali.

Diversa la reazione del mercato del reddito fisso, che subisce forti oscillazioni perché le aspettative sulla tempistica del taglio dei tassi hanno un impatto immediato sulla curva dei rendimenti.

Il vero rischio è che il perdurare degli alti tassi finisca per mettere in crisi i settori più indebitati dell’economia: l’immobiliare, per via del maggior ricorso al tasso variabile, e le piccole e medie imprese che dipendono in modo cruciale dal credito bancario per il capitale circolante.

Quanto conta la politica

Per quanto nessun banchiere centrale lo ammetterebbe neanche sotto tortura, la politica conta nelle decisioni della Bce: anche loro sono suscettibili sia all’opinione pubblica sia ai governi che di fatto li nominano e con i quali devono interagire se non altro per le implicazioni che la politica monetaria ha sul costo del debito pubblico e il funzionamento del sistema bancario. E viste le previsioni con almeno un quarto del Parlamento europeo in mano ad esponenti di partiti fortemente nazionalisti e populisti, non credo che la Bce rimanga insensibile ai venti della politica che, in caso di un ulteriore rallentamento economico, vedrebbe crescere la diffidenza nei confronti delle istituzioni europee, Bce in primis.

La battaglia è stata vinta, ma il cittadino pone ancora l’inflazione in cima alle proprie preoccupazioni: perché? Perché guarda al livello dei prezzi, non al loro tasso di crescita, cioè all’inflazione. Se, per esempio, l’inflazione sale al 4 per cento per due anni, per poi azzerarsi, la battaglia è vinta, ma il potere di acquisto si è ridotto nel frattempo dell’8 per cento, e il cittadino percepisce un peggioramento del suo tenore di vita.

Ci vuole tempo perché il suo reddito cresca per recuperare il potere di acquisto perduto, e si renda conto che, azzerata l’inflazione, rimane costante. La Bce dovrebbe ricordarsi che lotta all’inflazione e percezione dei cittadini non sono la stessa cosa.

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