L’offerta non vincolante di Kkr per il ramo di azienda di Tim, che include la rete primaria, FiberCop (dove Kkr è già azionista con circa il 40 per cento) e i cavi internazionali di Sparkle, ha riacceso l’attenzione sull’annosa vicenda della rete unica. Si parla di un’offerta da 20 miliardi di Kkr, contro una valutazione di 30 di Vivendi, azionista di maggioranza, e di una possibile controfferta di Cdp insieme a qualche fondo, come traspare anche dal comunicato di Tim che si dice «pronta a considerare altre opzioni alternative».

L’opacità verso il mercato

Nessuno sembra ricordarsi che Tim è una società quotata e che la notizia di un’offerta, come tutte le altre indiscrezioni, muovono il titolo. Ma la Consob si è limitata a chiedere lumi sulla durata dell’offerta (un mese) che il consiglio di amministrazione di Tim valuterà il 24 febbraio. Sarà pure non vincolante, ma i termini generali dell’offerta dovrebbero essere comunicati al mercato.

Altrimenti come fa un investitore a valutare Tim quando questa potrebbe cedere una parte preponderante delle proprie attività? E magari si dovrebbe chiedere a Cdp di smentire o confermare un’offerta alternativa; anche perché la durata dell’offerta di Kkr, troppo breve per valutare un’operazione così complessa, lascia supporre che il vero obiettivo sia di costringere Cdp a rompere gli indugi e farsi avanti, ma a un prezzo superiore a quello di Kkr (che così tutela il suo investimento in FiberCop).

Prassi consolidata

Nel caso di Tim, la scarsa trasparenza è ormai prassi consolidata: prima l’offerta di Kkr su tutta Tim a 50 centesimi per azione (almeno si sapeva il prezzo, seppur non vincolante), con l’ovvio intento di gestire lei la vendita della rete; offerta non presa in considerazione da Vivendi perché ha il titolo in carico a 62 (acquistato a 1,07 euro), che cambia amministratore delegato e gli chiede di fare un piano di separazione societaria con tutte le attività della rete nella società NetCo, e avviare la trattativa con Cdp; la trattativa si arena sul prezzo; il governo Meloni appena insediato vorrebbe sbloccare la questione con un’opa di stato su tutta Tim, per poi procedere alla scissione, anche se Cdp non ha i soldi per fare l’operazione; così si vocifera che Vivendi pianifichi di quotare NetCo in modo che sia il mercato a fissare l’asticella del prezzo per l’eventuale offerta di Cdp, e così si arriva all’offerta odierna di Kkr.

Valutare la sostenibilità

La cessione della rete è ormai inevitabile, perché l’unica via di uscita per Tim. In tutto questo bailamme, ci si dimentica infatti che Tim è un’azienda in declino, e che alla lunga rischia la crisi finanziaria e ristrutturazione; e che il “prezzo” offerto per la rete non vuol dire nulla di per sé in quanto rappresenta il valore delle attività, che è la somma di debito e capitale: senza conoscere quanto debito e quale è il margine operativo generato dalle attività cedute, non è possibile azzardare un valore di Tim. Non le basta infatti liberarsi di tanto debito con la scissione, ma deve far sì che il margine (ovvero i costi e i ricavi) generati dalle attività che vengono scisse sia il minore possibile, perché è il rapporto tra debito e margine delle attività che restano in Tim a determinare il valore del titolo.

Dietro al declino di Tim c’è infatti la crescente insostenibilità del suo debito. Stando alle stime di consenso degli analisti per il 2023 (Factset), il debito sarà 4,2 volte il margine operativo lordo, quasi doppio rispetto alla media di 2,5 dei cinque principali operatori telefonici europei. Il debito, sceso a 23,2 miliardi nel 2019, è stimato in rialzo a 25,4 quest’anno per via dell’aumento dei tassi e del maggior premio per il rischio che la società deve pagare. Ma non è solo il debito che conta per la sostenibilità: dipende anche dai cash flow (flussi di cassa, ndr) che un’impresa genera.

E il risultato prima di interessi e imposte di Tim è in crollo costante da oltre un decennio, dal 17,5 per cento in media nel quinquennio 2010-14, al 14,4 del 2015-19, al 6,6 stimato per il 2022-23. Nel piano triennale elaborato l’anno scorso dal nuovo amministratore delegato Pietro Labriola, si affermava che i costi vanno tagliati del 15-20 per cento, e che la riduzione dei costi da sola non è in grado di bilanciare i minori margini, anche perché perchè l’Italia è «il mercato con la maggiore concorrenza in Europa, e la regolamentazione più severa».

Strada obbligata

Dovrebbe essere chiaro che il problema di Tim non è se fare o meno la scissione della rete, e a quale prezzo, ma che la scissione è la strada obbligata per evitare di entrare in crisi e dover ristrutturare. Per Tim è cruciale deconsolidare la maggior quantità di debito, ma anche di costi, specie del lavoro, difficili da tagliare in Italia. Per questa ragione il compratore alla fine non può che essere Cdp, e l’offerta di Kkr sembra solo strumentale ad accelerarla, in quanto lo stato azionista della rete è l’unico che ha il potere contrattuale per ridurre «l’eccesso di competizione e la severità della regolamentazione» menzionati nel piano di Tim, e permetterle di disfarsi della patata bollente degli esuberi. Ragione per cui la scissione della rete è ben vista anche dai concorrenti di Tim.

Alternative percorribili non ce ne sono. L’altra attività rilevante che Tim potrebbe cedere per ridurre il debito è il Brasile: anche ipotizzando che la vendita avvenga ai multipli più elevati delle maggiori società telefoniche latino-americane (circa cinque volte il margine operativo), Tim arriverebbe a deconsolidare circa 10 miliardi di debito, ma perderebbe un terzo del suo margine, lasciando l’indebitamento del 50 per cento più elevato rispetto alla media europea.

E infatti l’ipotesi è stata accantonata dalla compagnia. Tim deve scindere la rete per uscire dalla trappola di alto debito e margini in declino; poi eventualmente andare all’incasso col Brasile.

L’altra faccia della medaglia è Cdp. Non ha le risorse per fare l’acquisizione della rete da sola, perché altrimenti la sua leva finanziaria rischierebbe di diventare eccessiva. È quindi probabile, come da indiscrezioni, che nell’operazione coinvolga fondi di private equity o sovrani, come d’altronde è stato con Cdp Reti (che controlla Terna, Snam, e Italgas), con Autostrade (per “sottrarle” a caro prezzo ai Benetton) e con OpenFiber per far uscire (con profitto) Enel. Ma questi fondi tipicamente richiedono un rendimento sugli investimenti molto elevato e accetteranno di finanziare l’operazione solo con la promessa implicita dello stato azionista (che è anche regolatore) di tariffe tali da sostenere debito e margini, e pagare ricchi dividendi. Non so come e quando finirà l’odissea della rete. Credo però si possa già ipotizzare quale sarà il capitolo finale.

Capitolo finale

La vecchia Telecom Italia sparirà per sempre: dopo scissione della rete, vendita parziale dei servizi alle imprese e delle torri (Inwit), e possibile cessione del Brasile, diventerebbe plausibile la fusione di Tim con un concorrente e la riduzione da quattro a tre degli operatori in Italia. Sarebbe una delle più ingenti distruzioni di valore nella storia economica recente.

Tra le fanfare del governo che suoneranno per festeggiare la creazione della rete unica, “strategica” per la crescita del paese, si nasconde l’ennesimo intervento statale per scaricare sul pubblico il costo del risanamento di Tim, in declino irreversibile, e fare un’impropria politica dei redditi per evitare esuberi; oltre che trovare una collocazione a OpenFiber, altra iniziativa anti economica voluta dalla politica (di cui si parla troppo poco e si conosce ancora meno). Lo stato italiano sarà ancora una volta una gallina dalle uova d’oro per i soliti fondi di private equity. E a pagare tutto questo saranno gli utenti di internet, perché non si potrà tenere in piedi il castello del debito, garantire i dividendi ai fondi, e coprire il costo degli esuberi creato dalla scissione, senza aumentare i ricavi dalla rete.

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