Oltre un miliardo di euro: tanto deve lo Stato a Tim per la vicenda del canone del 1998. È la Corte di Cassazione a mettere fine a un contezioso durato vent’anni, rigettando il ricorso presentato dalla presidenza del Consiglio e confermando in via definitiva la decisione di aprile 2024 della Corte d’appello di Roma.

La somma originariamente era pari a 500 milioni che, per effetto di rivalutazioni e interessi maturati nel corso degli anni, sono saliti a oltre un miliardo. La Cassazione ha dunque confermato l’illegittimità del canone preteso dallo Stato nel 1998.

Sulla vicenda era intervenuta in più occasioni la Corte di Giustizia dell’Unione europea: a suo tempo la norma nazionale aveva prorogato l’obbligo del pagamento del canone per l’anno 1998 ma nel 2000 la magistratura europea aveva già evidenziato il netto contrasto della norma con la direttiva sulla liberalizzazione del mercato delle telecomunicazioni.

Secondo l’Europa lo Stato non poteva più pretendere il canone da parte di Tim calcolandolo in funzione del fatturato, ma era consentita soltanto la richiesta di pagamento dei costi amministrativi connessi al rilascio, alla gestione, al controllo e all’attuazione del regime di autorizzazioni generali e di licenze individuali.

Le tappe

Ma la partita non si è chiusa lì: nel 2000 Tim ha fatto ricorso al tribunale amministrativo del Lazio contro le modalità per il versamento del contributo. Il Tar però rinviò la decisione alla Corte di Giustizia europea. È del 2008 la sentenza favorevole all’azienda che nel frattempo nel 2003 aveva fatto richiesta di rimborso sempre al Tar del Lazio che l’aveva rigettata nel 2008, in barba alla decisione dell’Europa.

Quindi nuovo ricorso al Consiglio di Stato, rigettato nuovamente nel 2009. Poi il ricorso in Corte d’appello che aveva dato ragione a Tim ma la presidenza del Consiglio si era opposta appellandosi alla Cassazione, la quale aveva rinviato la decisione finale sul caso chiedono ulteriori accertamenti: in ballo un vizio di forma, ossia si voleva verificare se la richiesta iniziale di Tim fosse stata presentata al tribunale competente. Oggi la Cassazione ha definitivamente chiuso la partita.

La lettera

L’amministratore delegato di Tim Pietro Labriola si è detto sempre fiducioso in merito all’esito della vicenda, tant’è che l’azienda aveva già “monetizzato” l’importo da circa un miliardo con un pagamento anticipato da parte delle banche a un costo di finanziamento agevolato.

In una lettera inviata ieri, 19 dicembre, ai dipendenti, Labriola ha detto che l’azienda ha ora «un disegno industriale più focalizzato, più efficiente, più solido. Un disegno che non nasce per difendersi, ma per tornare a crescere». Tra i pilastri della strategia industriale cloud, cybersecurity e piattaforme digitali “asset industriali veri”, insieme all’avvio del progetto del nuovo data center, c’è «un investimento strategico che guarda al lungo periodo e sarà uno dei cantieri più importanti del 2026, un elemento chiave della nostra traiettoria futura».

Poste, Tim e PagoPA

Intanto, nei giorni scorsi, Poste è salita al 27,32 per cento del capitale ordinario di Tim, acquisendo la quota residua del 2,51 per cento ancora in capo ai francesi di Vivendi, precedenti azionisti di maggioranza. È stata dunque superata la soglia che fa scattare l’obbligo di Opa (il 25 per cento), ma Poste ha dichiarato di volersi avvalere dell’esenzione prevista da Consob impegnandosi a cedere le azioni ordinarie detenute in eccedenza entro 12 mesi dal perfezionamento dell’acquisto e astenendosi dall’esercizio dei diritti di voto relativi a tali azioni.

«Con questa operazione, Poste Italiane rafforza l’investimento di natura strategica realizzato in Tim, confermando il proprio obiettivo di svolgere il ruolo di azionista industriale di lungo periodo, attraverso la realizzazione di sinergie e la creazione di valore per tutti gli stakeholder», ha scritto in una nota l’azienda capitanata da Matteo Del Fante, che per il momento non entra in cda riservandosi però future valutazioni.

A proposito di Poste ieri, 19 dicembre, è poi stato annunciato l’ingresso nel capitale sociale di PagoPA con una quota del 49 per cento. La maggioranza, il 51 per cento, passa nelle mani della Zecca dello Stato. Il Mef cede dunque la proprietà per un controvalore di 500 milioni di euro. Il perfezionamento è soggetto al disco verde da parte dell’Antitrust.

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