Le difficoltà per le imprese italiane non cominciano con i dazi di Donald Trump. Perché se questi minacciano di affossarne molte, molte altre sono già entrate in crisi negli ultimi quattro anni per ragioni diverse e hanno dovuto chiudere battenti o ricorrere a strumenti di regolazione della crisi, con un crescendo che dal 2021 raggiunge il picco nel 2023 e nel 2024.

Si tratta di aziende che o perché in crisi - vale a dire in allarme per flussi di cassa, cioè di denaro a disposizione, che potrebbero non bastare a coprire i debiti nei mesi successivi - o perché insolventi - cioè non più in grado di pagare i propri debiti – ricorrono a forme di negoziazione con i creditori per tentare di rilanciare l’impresa oppure falliscono e quindi mettono in liquidazione i loro patrimoni per ripagare i debiti.

Nel 2024 le aziende che hanno aperto procedure di fallimento o, come ribattezzato dal Codice della crisi d’impresa, di liquidazione giudiziale sono state 9.203, cioè il 78,8 percento di tutte le procedure avviate. Registrando un aumento sensibile rispetto al 2023 che ne contava 7.685 e al 2022 con 6.888.

A rivelarlo è l’Osservatorio semestrale sulla crisi di impresa, realizzato - sulla base dei dati del Registro delle imprese - da Unioncamere e InfoCamere. Che già a settembre evidenziavano come il calo delle procedure di liquidazione giudiziale aperte nel 2022 rispetto al 2023, nonché alle 8.720 del 2021, era «probabilmente ascrivibile ai numerosissimi interventi di incentivazione e sostegno legati al periodo Covid, denso di azioni di assistenza e di aiuti al comparto aziendale».

Industria in caduta libera

Da lì in poi è tempo di post-Covid e di frenata per il settore produttivo italiano, ormai in caduta libera da 25 mesi consecutivi. Con una riduzione a febbraio di quest’anno dello 0,9 percento dell’indice destagionalizzato della produzione industriale rispetto a gennaio, secondo le stime dell’Istat diffuse giovedì. Mentre su base annua l’indice generale diminuisce del 2,7 per cento. In altre parole, «in termini tendenziali, prosegue la lunga fase di flessione», spiega l’Istituto nazionale di statistica. Aggiungendo che «la dinamica tendenziale è negativa per tutti i principali raggruppamenti di industrie, con l’eccezione dell’energia».

Le aziende che hanno aperto procedure di liquidazione giudiziale nel 2024 hanno un numero medio di sei addetti e un valore medio della produzione di un milione di euro. E sono per l’80,9 percento del totale società di capitali. Caratteristiche che «evidenziano che questa procedura riguarda imprese più fragili e meno strutturate, confermando ancora una volta la relazione diretta esistente fra solidità e dimensione aziendale», sostiene il rapporto di Unioncamere.

La maggior parte delle imprese fanno parte dei settori del commercio all’ingrosso e al dettaglio (24,7 percento), delle costruzioni (19,7 percento) e delle attività manifatturiere (17,4 percento).

Pesa l’instabilità

A tutto questo fa da sfondo, prima ancora dell’attuale bailamme geopolitico internazionale con la sferzata imposta a ritmo di picconate dai dazi dell’era Trump, una situazione di malessere e fragilità strutturale delle aziende italiane. Che oltre a cristallizzarsi nei dati sul fallimento delle aziende e sul calo della produzione industriale viene segnalata anche dal modo in cui alcune imprese reagiscono ai primi segnali di crisi.

Boom di composizione negoziale

È l’altro dato di rilievo che emerge dal rapporto e riguardante le imprese che hanno fatto ricorso alle composizioni negoziate della crisi, procedure che nel 2024 sono quasi raddoppiate passando dallo 0,4 percento nel 2021 al 9,3 percento del 2024 e divenendo « il primo strumento utilizzato dalle imprese in crisi».

I dati segnalano che a crescere, oltre alle domande, è la dimensione delle aziende che fanno ricorso a questa misura, in termini di valore della produzione, addetti e forma giuridica.

Si tratta di una procedura stragiudiziale che permette all’imprenditore di risanare l’impresa con il supporto di un esperto indipendente che agevoli le trattative con i creditori. Tra le imprese che nel 2024 ne hanno beneficiato prevalgono le società di capitale (81,5 per cento) e quelle con numero di addetti tra i due e i cinquanta (dove si concentra il 73,5 per cento dei richiedenti), mentre il 49,6 per cento delle imprese fa registrare un valore della produzione tra 1 milione e 10 milioni di euro, valore medio passato da circa 4 milioni di euro nel 2021 a 9 milioni nel 2023, per arrivare a 10 milioni nel 2024.

La maggioranza delle imprese appartiene al settore manifatturiero (25,9 percento), del commercio all’ingrosso e al dettaglio (23,3 percento) e, a seguire, delle costruzioni (12,2 percento).

I dazi americani sono solo uno degli amplificatori e acceleratori delle tante fragilità del settore produttivo italiano.

A cui l’esecutivo Meloni risponde tentennando di fronte al tycoon e proponendo alle imprese «un patto per fare fronte comune» con un piano di incentivi da 25 miliardi di euro da prelevare dal Pnrr e dai fondi di coesione, soldi europei già riscossi. Ma per altri fini.

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