Lo sviluppo economico dipende da qualità e quantità degli investimenti in capitale umano e fisico. In questo, lo Stato ha un ruolo chiave: oltre a produrre quei beni pubblici che hanno forti esternalità positive sulla produttività (istruzione, ricerca, sanità) e realizzare gli investimenti che il mercato non può finanziare, deve indirizzare gli investimenti privati nei settori con il più alto potenziale per la crescita.

Questa premessa è utile per capire la rilevanza del Green Deal europeo: l’obiettivo di zero emissioni nocive nel 2050 è importante non solo in termini di benessere ambientale, ma sarebbe anche strategico per innalzare il trend di crescita del Continente. Il condizionale è d’obbligo: perché c’è il rischio che anche questa transizione, dopo quella tecnologica, sia dominata da Stati Uniti e Cina.

Disinteresse di Meloni

Ma non pare che il problema interessi il nostro governo, forse illudendosi che la maggior crescita del Pil degli ultimi due anni costituisca un cambiamento rispetto al trend di stagnazione degli ultimi 20, e non il risultato drogato da un temporaneo forte aumento nella spesa pubblica, finanziata col debito anche del Pnrr.

Il settore automobilistico ha una forte rilevanza in Europa. Per non perderla sono necessari enormi investimenti per la riconversione all’elettrico e un aumento della domanda di vetture elettriche (EV) per raggiungere le economie di scala necessarie ad abbattere i costi di produzione e remunerare il capitale investito. Il blocco Ue alle nuove auto con motore endotermico nel 2035 aveva proprio lo scopo di rendere certa la svolta elettrica, e quindi la domanda di EV, riducendo così il rischio degli investimenti e favorendo le economie di scala. Ma il voto finale sul blocco è slittato anche grazie all’opposizione italiana: «Con il nostro no abbiamo svegliato l’Europa» ha twittato il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso. Bastano pochi dati per capire quanto nocivo sia questo no.

Cina e Stati Uniti, i due principali mercati anche per case automobilistiche europee, hanno già svoltato decisamente verso l’elettrico. Nel secondo trimestre, la cinese BYD ha venduto ben 700.000 vetture, di cui metà EV (il resto ibride plug-in), scalzando la Volkswagen dal vertice delle vendite in Cina (e solo una frazione delle auto vendute erano EV). Ma anche le altre case cinesi - Li Auto, Xpeng, Nio, Guangzhou, Geely - hanno venduto ognuna più o meno lo stesso numero di auto elettriche di Ford e GM negli Usa. E’ il segno che le imprese cinesi stanno raggiungendo le economie di scala per poter invadere con offerte competitive i mercati europei e americani, come già successo con batterie e pannelli solari. Oltre a dominare l’estrazione e la lavorazione dei metalli necessari alla transizione ambientale.

Il dominio cinese nella rivoluzione verde rappresenta un ovvio rischio geopolitico. Così il governo degli Stati Uniti è intervenuto con una chiara strategia per competere con la Cina anche in questo campo, e ha messo in campo enormi risorse pubbliche (quasi 400 miliardi), lasciando però al settore privato la decisione su come meglio utilizzarle. Tesla per prima ha capito che la chiave negli EV era la dimensione, per beneficiare delle economie di scala: così, nello scetticismo generale, ha tagliato i prezzi delle sue auto per spingere la domanda a discapito dei margini, e investito in nuova capacità produttiva, negli Usa come in Germania.

Una scommessa che ha pagato: nel secondo trimestre ha venduto 466 mila auto EV, oltre ogni aspettativa. La mossa di Tesla ha reso palese alla concorrenza quanto sia cruciale favorire la diffusione dell’elettrico: assieme a Ford e GM, e ora anche Mercedes, hanno stipulato un accordo per condividere l’accesso alle reciproche reti di colonnine elettriche e adottare tutte la tecnologia Tesla di ricarica rapida, creando così un’unica infrastruttura di 140 mila stazioni di ricarica negli Usa, con l’obiettivo di raggiungere il mezzo milione grazie agli incentivi governativi. Incentivi che in tutti i campi, dalla produzione di semiconduttori e batterie, allo sviluppo di tecnologia e produzione di pannelli solari e idrogeno, attirano investimenti non solo delle imprese americane, ma anche da quelle europee.

Paese per paese

L’Europa esce schiacciata dalla contesa tra Cina e Stati Uniti. Ma ogni paese va per la propria strada: la Commissione ha solo sospeso fino al 2025 la normativa sugli aiuti di stato per la transizione ambientale. Così negli ultimi tempi, il governo tedesco ha sussidiato una fabbrica di batterie in Germania della svedese Northvolt, dopo quella della cinese CATL, dell’americana Microvast e della tedesca Basf, e fornito ai 6 miliardi a Intel per produrre microprocessori; la Francia fornisce 1,5 miliardi alla Prologium di Taiwan per una serie di investimenti in batterie nel nord del Paese; e la Spagna, sta usando la leadership nelle rinnovabili per diventarlo anche nell’idrogeno verde (uno su cinque impianti nel mondo sono spagnoli). Poca cosa, comunque, rispetto agli Stati Uniti.

E l’Italia? Non pervenuta. Il governo, oltre a difendere il motore endotermico, anche se destinato all’estinzione, non fa nulla per incentivare la domanda di EV (con meno del 9 per cento delle auto vendute, a fronte del 31 tedesco e 22 francese, siamo quindicesimi in Europa). La rarità delle stazioni di ricarica è forse l’ostacolo principale alla loro diffusione, ma non è una priorità per il Governo. Come non lo sono gli incentivi per gli investimenti in impianti per la produzione di batterie e microprocessori. Le imprese, in primis Stellantis, investono dove conviene maggiormente, e non si capisce perché dovrebbero rinunciare agli incentivi degli altri Paesi per venire in Italia.

Il debito pubblico è un limite per l’Italia, ma non una giustificazione. Abbiamo speso miliardi per i bonus casa, con il pretesto di migliorare la prestazione energetica degli immobili, ma senza verificare se le emissioni nella produzione dei materiali usati nelle ristrutturazioni non eccedessero quelle risparmiate. Risorse pubbliche che potevano essere utilizzate in modo più efficiente. Nella trattativa sul Patto di Stabilità l’Italia chiede di decurtate dal deficit gli investimenti per l’ambiente: ma in questo modo non li si aumenta, bensì si crea solo più spazio per l’altra spesa pubblica.

Mercato

Stato e amministrazioni locali sono azionisti di controllo di quasi tutte le aziende del settore energetico ed elettrico. Il governo nomina i vertici, ma la loro priorità sono gli interessi del mercato, essendo società quotate.

Così Eni ha appena investito quasi 5 miliardi per l’acquisizione di Neptune per espandersi nella produzione di gas. Da un punto di vista aziendale è più logico di una diversificazione nelle rinnovabili, visto che l’Italia continuerà a dipendere dal gas per anni e quindi Eni, che domina gli approvvigionamenti, ha tutto l’interesse che la dipendenza si perpetui. Enel è un leader mondiale nelle rinnovabili, ma ha fatto i maggiori investimenti in Usa, Sud America e Spagna, perché in Italia non le conviene o non ci sono le condizioni per farlo. In entrambi i casi, lo Stato-azionista è felice, perché incassa i dividendi, ma di fatto delega la politica energetica ai vertici delle partecipate che, però, hanno poco interesse a fare investimenti verdi in Italia; sopratutto perché lo stato non ha le risorse per incentivarli.

Una contraddizione che si supererebbe se il Governo vendesse le partecipazioni e usasse il capitale ricavato per fornire quegli incentivi agli investimenti verdi che gli altri Paesi stanno dando; e non perdere così le opportunità di crescita che la rivoluzione ambientale può offrire. Se poi si è usato il Golden Power per difendere dal rischio scalata beni “strategici” come i pneumatici di Pirelli e gli aspirapolvere di Electrolux, lo si potrà ben fare anche per gli investimenti verdi. Ma è inimmaginabile che succeda. Se l’Europa rischia di perdere anche il treno della rivoluzione verde, l’Italia si è già fermata al bar fuori dalla stazione.
 

© Riproduzione riservata