Eccoci di nuovo insieme, Europa!
Siamo alla diciassettesima edizione dello European Focus!
Sono Sinisa-Jakov Marusic, il caporedattore di questa settimana, e scrivo da Skopje.
«Pensione prima dell’artrite!».
Questo coro chiassoso riecheggia nella mia stanza mentre guardo un filmato delle enormi proteste del 19 gennaio, in Francia, contro il piano del presidente Macron di aumentare l’età pensionabile.
Mi fa riflettere sull’enorme potere che potenzialmente i lavoratori, ossia tutti noi, abbiamo quando ci uniamo per una causa impellente.
Il dialogo sociale è quella situazione in cui i governi, i datori di lavoro e i lavoratori si siedono insieme e discutono dei propri interessi comuni riguardo alle politiche economiche e sociali. Ma cosa succede quando la voce dei lavoratori rimane inascoltata e questi ultimi si sentono mal rappresentati, o non rappresentati affatto?

Gli scioperi e il diritto, guadagnato con fatica, di organizzarsi e scendere in piazza sono una parte importante della cultura del lavoro europea.
Tuttavia, ci sono parti dell’Europa dove i sindacati non sono ancora una cosa comune, e sono addirittura messi al bando in diverse aziende.
Questo inverno ci saranno ulteriori proteste in Francia, nel Regno Unito e in tutta Europa, e i lavoratori resisteranno contro i propri governi che insistono nell’adottare delle normative che non solo limitano i loro diritti, ma negano loro il diritto di scioperare.
Sinisa-Jakov Marusic, caporedattore di questa settimana


L’inverno del nostro dissenso

Manifestanti davanti ai reparti antisommossa della polizia durante una protesta contro la riforma delle pensioni, il 19 gennaio a Parigi. Foto AP

ROMA - In tutta Europa sono in corso tentativi di reprimere il dissenso, anche se temo che la nostra consapevolezza collettiva come europei su questa tendenza sia ancora troppo poca.
L’esordio al governo di Giorgia Meloni è stato in sé qualcosa di sconcertante. Il 31 ottobre, migliaia di persone hanno potuto sfilare indisturbate a Predappio, la terra natìa di Benito Mussolini, per celebrare il centenario della sua marcia su Roma. Negli stessi giorni, la polizia ha manganellato gli studenti che protestavano contro un evento con esponenti di Fratelli d’Italia all’università La Sapienza di Roma. Insomma, tirava una brutta aria.
E proprio sotto questi foschi auspici è stato concepito il cosiddetto “decreto rave”. La polizia aveva già evacuato un rave dalle parti di Modena, quando il governo di estrema destra ha battezzato il suo piano: «vietare raduni di oltre cinquanta persone», qualora «occupino spazi e rappresentino una minaccia all’ordine pubblico». L’iniziativa ha scatenato il dibattito e ha prodotto malumori nella stessa coalizione, in particolare in Forza Italia, così il “decreto rave” è stato smussato rispetto alla bozza di partenza.
La repressione del dissenso non è certo una faccenda solo italiana.
Era febbraio dell’anno scorso, quando il premier ungherese Viktor Orbán, vecchio amico della destra nostrana, ha promosso un decreto per restringere il diritto di sciopero. Non viene esplicitamente vietato di scioperare, ma questo è l’effetto, come si è visto quando gli insegnanti hanno protestato per l’aumento dei loro salari e per il miglioramento del sistema educativo. «Se decido di scioperare, allora sono comunque obbligata a tenere almeno la metà delle mie lezioni, o persino tutte se si tratta di studenti dell’ultimo anno», aveva raccontato a Domani Bea Berta, un’insegnante ungherese, spiegando l’impatto del decreto sugli scioperi.
Alcuni professori che avevano praticato la disobbedienza civile sono stati persino licenziati; un caso celebre è quello di Katalin Törley, insegnante in un liceo di Budapest.
Mano a mano che le proteste incalzano, i governi si affrettano a metter mano a nuove leggi anti-sciopero.
Nel Regno Unito, dove è in corso un’ondata di scioperi, il governo conservatore ha promosso una nuova legge per garantire «i servizi minimi» e contenere gli scioperi.
Viste le proteste contro la riforma delle pensioni, in Francia l’esecutivo ha fatto considerazioni analoghe: il ministro dei Trasporti Clément Beune vuole garantire «i servizi minimi» durante gli scioperi. Piuttosto ironicamente, questa via viene chiamata «il modello
italiano».
Francesca De Benedetti si occupa di Europa ed Esteri a Domani


I sindacati britannici tengono il punto

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LONDRA - Il premier britannico Rishi Sunak ha scelto un approccio thatcheriano nell’affrontare gli scioperi di massa nel Regno Unito. Sta persino cercando di far passare una legge anti-sciopero per imporre livelli di servizio minimi durante gli scioperi in settori quali la sanità, l’istruzione, i servizi antincendio e di soccorso, i trasporti. Il disegno di legge consentirebbe anche ai dirigenti nel settore pubblico e privato di licenziare i lavoratori in sciopero.
Nonostante le intense discussioni, nulla lascia pensare che i sindacati e i loro membri vogliano cedere alle pressioni del governo. Tuttavia, l’insistenza dei conservatori britannici nel ripetere le proprie politiche di austerità a partire dal 2010, mentre le disuguaglianze sono così radicate nel paese, darà ai lavoratori ulteriori motivi per protestare.
I sindacati erano stati attaccati dalla leader conservatrice Margaret Thatcher, che li aveva definiti «il nemico interno» successivamente al cosiddetto “inverno del malcontento”, la lunga serie di scioperi del 1978 e del 1979 che aveva determinato il crollo del governo laburista dell’epoca. Questa etichetta ora è tornata nel dibattito, visti i tempi in cui sono in molti a scioperare.
I sindacati nel Regno Unito sono cruciali per lo sviluppo sociale del paese, dal momento che, insieme agli intellettuali socialisti del Novecento, hanno fondato il Partito Laburista e hanno contribuito a far salire al potere il governo laburista di Clement Attlee nel 1945; proprio quell’esecutivo ha istituito il servizio sanitario nazionale britannico, il National Health Service.
Le adesioni ai sindacati nel 1950 avevano raggiunto i nove milioni e mezzo, il che vuol dire che quasi un quinto della popolazione ne faceva parte.
In questo momento l’aumento del costo della vita, l’impatto sociale di oltre dodici anni di politiche di austerità dei conservatori, l’inflazione crescente e la necessità di aumentare i salari e migliorare le condizioni di lavoro, sono fattori chiave per comprendere la massiccia ondata di proteste.
Il primo di febbraio gli insegnanti, i funzionari pubblici, i docenti universitari, i lavoratori dei servizi di sicurezza, i conducenti di treni e bus, si sono dati tutti appuntamento per marciare insieme in quella che promette di diventare la giornata di sciopero più grande degli ultimi dieci anni: le stime calcolano oltre mezzo milione di persone che si astengono dal lavoro. E questo prova fino a che punto i sindacati britannici si stiano facendo valere.
Angelo Boccato è un giornalista freelance, vive a Londra e ha scritto per The Independent e la Columbia Journalism Review


«Troppi sindacati in giro»

Gli impiegati del settore privato non scioperano spesso in Polonia. Nell’immagine: Sciopero di novembre del personale di volo della LOT Polish Airlines, impresa di proprietà statale. Foto: Dawid Żuchowicz / Agencja Wyborcza.pl.

VARSAVIA - «Ho lasciato la Francia nel 2005: c’erano troppi sindacati. Troppi scioperi. Troppi reclami. Troppa protezione del lavoro», Sono parole di Gregorie Nitot, che ha fondato e dirige Sii, un’azienda informatica in Polonia.

Le ha scritte a novembre in una mail rivolta a un suo impiegato, Krystian Kosowski, che voleva istituire un sindacato all’interno della Sii. Secondo l’amministratore delegato, Kosowski avrebbe «attaccato la Sii» e «istigato i colleghi a combattere contro l’azienda». Azienda dalla quale è stato infine licenziato.

Il livello di sindacalizzazione in Polonia è così basso da assestarsi al 12,9 per cento. Eppure il paese ha una ricca storia sindacale.

Negli anni Ottanta, oltre dieci milioni di cittadini facevano parte del movimento di opposizione Solidarność che rovesciò i comunisti nel 1989. Tuttavia, la fine del comunismo e il crollo di diverse imprese statali hanno portato all’esclusione dei sindacati. E così la Polonia ricomincia da zero per quanto riguarda la difesa dei diritti dei lavoratori.

Michal Kokot fa parte della redazione Esteri di Gazeta Wyborcza


Il numero della settimana: 132

PRISTINA – In Kosovo, lo scorso settembre, gli insegnanti delle scuole elementari e superiori hanno speso un totale di 132 ore di sciopero per chiedere un aumento di stipendio. Si tratta di un periodo pari a 22 giorni di lezione.
Gli insegnanti hanno lottato contro un sistema estremamente politicizzato in un paese che solo ora sta costruendo una cultura di dissenso civico e lavorativo.
Tuttavia, non hanno ottenuto un incremento della paga, e ora sono costretti a lavorare durante i fine settimana per recuperare i giorni perduti.
Ma hanno osato opporre resistenza.
Xhorxhina Bami è corrispondente da Pristina per Balkan Insight


Il potere dimenticato del popolo

Proteste in strada contro il Putsch di Kapp. Foto Wikimedia

BERLINO – Per i tedeschi gli scioperi non sono considerati un’opzione per ottenere progressi politici. Gli scioperi con fini politici sono di fatto vietati. Astenersi dal proprio lavoro è considerato un mezzo legittimo solo nel contesto di una lotta lavorativa, non per ottenere qualsiasi altro obiettivo.
L’anno scorso, però, ho imparato che una volta uno sciopero ha avuto un impatto determinante sullo scenario politico in Germania: nel marzo del 1920 un enorme sciopero generale a favore della democrazia è riuscito a impedire l’ascesa al potere di un regime di destra e a prevenirlo per i successivi tredici anni.
Mi sono imbattuta in questo evento storico grazie a un resoconto autobiografico del mio bisnonno, che era sindaco di un piccolo comune tedesco durante la prima guerra mondiale. A quanto pare, è stato uno dei cofondatori della sede locale della Deutsche Vaterlandspartei (Partito Tedesco della Patria) di estrema destra.
Nel marzo del 1920 il trattato di Versailles obbligò la Germania a ridurre immensamente il numero delle proprie truppe. Ma alcune forze antidemocratiche nell’esercito si rifiutarono di smantellare le truppe e sfidarono il governo appena eletto tentando il golpe. In quanto antidemocratico, il mio bisnonno supportò apertamente il colpo di stato. Il putsch fallì, e lui perse il lavoro. Ma perché quel putsch è fallito?
È qui che arriviamo allo sciopero: i golpisti non avevano un piano d’azione comune, ma soprattutto dodici milioni di lavoratori pro-democratici smisero di lavorare per diversi giorni, mostrando così che l’infrastruttura e i mezzi di produzione erano in mano al popolo, e che il popolo non supportava il golpe. Senza gli autobus, i treni, i giornali, i telefoni o la posta, e con una Berlino senza acqua né elettricità, il regime non poteva mantenere il potere.
La cosa paradossale è che con i suoi scritti il mio bisnonno intendeva trasmettere ai propri discendenti insegnamenti che a me paiono decisamente inquietanti, ma di converso ho imparato da questa storia un’altra cosa: nonostante io tenda a essere sospettosa della volontà collettiva del popolo tedesco, c’è stato un momento in cui ha dato vita a una potente azione a favore della democrazia.
Teresa Roelcke è una giornalista di Tagesspiegel


Qual è la tua impressione su questo tema? Ci piacerebbe riceverla, alla mail collettiva info@europeanfocus.eu se vuoi mandarcela in inglese, oppure a francesca.debenedetti@editorialedomani.it
Al prossimo mercoledì! Francesca De Benedetti


(Versione in inglese e portale comune qui; traduzione in italiano di Marco Valenti)

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