La ‘ndrangheta emiliana, la ricostruzione post terremoto, la guerra all’antimafia da chi rappresenta le istituzioni. A questi ingredienti di base vanno aggiunte alcune registrazioni fatte in gran segreto a un senatore, un servitore dello stato infedele e altri, invece, che hanno subìto le minacce dei politici proferite in difesa delle imprese coinvolte in procedimenti antimafia.

Dall’impasto di tutto questo è nato un processo eccellente, in parte concluso in primo grado e in parte in corso a Modena a dieci anni dal sisma e dal clou dell’indagine Aemilia sui clan della regione interessati dall’affare ricostruzione dopo le scosse sismiche di fine maggio 2012.

L’imputato più famoso si chiama Carlo Amedeo Giovanardi, potente ex senatore e già ministro nei governi Berlusconi, leader del centrodestra in Emilia Romagna e riferimento dell’area ultra cattolica. Nello stesso procedimento sono stati già condannati l’imprenditore che ha beneficiato delle presunte informazioni riservate fornite da Giovanardi e a 10 mesi l’ex vice prefetto di Modena, per il quale è decaduta l’accusa più grave di minaccia a corpo amministrativo dello stato.

Domani ha ottenuto gli audio integrali di alcuni incontri tra i titolari dell’azienda accusata di contiguità con le cosche e l’ex senatore Giovanardi. Alcuni spezzoni erano stati ascoltati durante il processo, ma mancavano alcuni passaggi in cui il politico si lascia andare a commenti contro l’antimafia poco consoni a un ex uomo delle istituzioni.

Nei confronti di Giovanardi l’accusa ha subìto uno stop temporaneo, perché i suoi avvocati davanti alla corte modenese hanno chiesto l’immediata assoluzione con l’applicazione dell’articolo 68 della costituzione sull’immunità per i parlamentari. In pratica, sostiene la difesa del politico, Giovanardi non ha commesso alcun reato prendendo le parti dell’azienda collusa con la ‘ndrangheta emiliana, lo ha fatto esercitando le sue prerogative di senatore. Sulla questione si è espressa la giunta delle immunità del Senato che qualche mese fa gli ha dato ragione.

I giudici di Modena tuttavia hanno chiesto l’intervento della corte costituzionale. Il processo è dunque paralizzato. «Processano le idee di un parlamentare», dice Giovanardi a Domani, e contrattacca: «Si tratta di un processo inutile tanto che il vice prefetto dell’epoca è stato assolto dall’accusa di aver fatto pressioni sui carabinieri e condannato solo per rivelazione di segreto, ma la cosa incredibile è che non esisteva nessun segreto».

Giovanardi è sotto processo per aver rivelato informazioni coperte da segreto e fatto pressioni sui carabinieri con lo scopo di salvare un’azienda modenese dall’interdittiva antimafia disposta dalla prefettura di Modena l’anno dopo il terremoto, nel 2013. L’impresa Bianchini costruzioni era stata così esclusa dalle “white list”, l’elenco di aziende non condizionate dalla mafia, prerogativa necessaria per l’accesso ai lavori pubblici della ricostruzione. La società era, infatti, impegnata nei lavori post sisma, ma aveva un problema notevole: il titolare, Augusto Bianchini, si era consegnato mani e piedi agli emissari della ‘ndrangheta emiliana, rappresentata dalla cosca Grande Aracri.

La Cassazione lo ha condannato definitivamente nelle settimane scorse a 9 anni per concorso esterno alla mafia. In pratica, era colluso con la ‘ndrangheta emiliana. «Ai tempi Bianchini era uno stimato imprenditore, io faccio il politico vecchio stile, ricevo tutti e se ritengo che ci sia un’ingiustizia agisco esercitando le mie prerogative parlamentari», replica l’ex ministro.

La notizia dell’indagine a carico del politico modenese è del 2017, con due accuse: rivelazione di segreto e minaccia a corpo dello stato. Nelle prime fasi dell’inchiesta la procura antimafia di Bologna aveva contestato a Giovanardi anche l’aggravante di aver agevolato la mafia, in questo caso una ditta collegata alla ‘ndrangheta. Aggravante poi caduta. Da allora però si è aperto uno scontro frontale tra il politico e la magistratura, fatto di ricorsi e controricorsi, richieste alla Corte costituzionale e alla giunta delle immunità parlamentari. Tanto che a distanza di cinque anni il dibattimento è in una fase ancora iniziale, mentre per gli altri imputati il processo si è concluso con quattro condanne e una assoluzione in primo grado. «Io non ho minacciato nessuno», si difende Giovanardi.

Il senatore «intimidatorio»

Giovanardi ha agito, secondo i suoi colleghi del Senato, nell’esercizio delle sue funzioni parlamentari. Anche quando in un bar del centro storico di Modena ha convocato gli ufficiali dei carabinieri che lavoravano al dossier Bianchini-’ndrangheta, all’epoca dell’incontro già impegnati nell’importante inchiesta Aemilia, coperta da segreto istruttorio.

Domenico Cristaldi è uno dei due carabinieri andati all’appuntamento informale chiesto dall’allora senatore. L’unico ad aver fatto rapporto, d’accordo con il suo comandante, pure lui presente al bar. Per questo è diventato il super testimone nel processo e la vittima delle «minacce» del senatore.

«Onestamente ho militato in territori ad altissimo indice di criminalità organizzata. Un incontro imbarazzante come questo, imbarazzante per il fatto che il contesto era quello pubblico in un bar, seduti a un tavolino, subendo in qualche modo l’atteggiamento di un senatore nei riguardi del quale è evidente che dovevamo tenere un certo rispetto, su un tema che era evidentemente coperto da segreto d’ufficio: onestamente non mi era mai capitato... Quindi mi è dispiaciuto moltissimo, ecco perché non ho avuto difficoltà a dire che effettivamente non ho mai provato una esperienza del genere, molto imbarazzante, molto fastidiosa». Cristaldi precisa che il tono «è stato un tono assolutamente deciso e..., mi viene da dire, intimidatorio».

Quel 17 ottobre 2014 tra i tavolini del bar i carabinieri sono rimasti impassibili di fronte all’ira del politico, al corrente di molte cose che non avrebbe dovuto conoscere rispetto alle attività di indagine in corso e condotte dall’arma sulla ‘ndrangheta emiliana e sull’azienda Bianchini.

«Ci siamo incontrati in questo bar con notevole disagio, perché onestamente fare un incontro istituzionale seduti a un tavolino di un bar in uniforme non è il massimo, sotto gli occhi della gente che passava. Ma lo dico anche alla luce di come si è evoluta la conversazione. Quando siamo arrivati, il senatore era già lì ad attenderci; per altro, io non lo conoscevo, quindi si è presentato con una battuta simpatica dicendo: “Piacere, carabiniere Giovanardi!”; il senatore ha prestato servizio come carabiniere ausiliario», ha detto in udienza il testimone Cristaldi, che ha proseguito: «Ricordo una domanda. Ha detto: “Vorrei capire per quale motivo il figlio di Bianchini non deve poter lavorare per il sol fatto di essere il figlio di Augusto Bianchini”. Già così aveva dimostrato di sapere che in qualche modo l’impresa di Alessandro Bianchini, la Ios, era oggetto di istruttoria in Prefettura per l’iscrizione con una proposta peraltro di diniego all’iscrizione che, se non ricordo male, risaliva al 10 di luglio, ed era ancora in istruttoria, e stiamo parlando del 17 di ottobre; poi è stata negata l’iscrizione il successivo 20 di ottobre del 2014».

Cristaldi nel suo racconto ai giudici ricorda una frase pronunciata dal politico modenese. Giovanardi, sostiene il colonnello, dopo aver trovato un muro insormontabile nei due ufficiali, avrebbe detto loro “io adesso a questo (Bianchini, ndr) che gli dico?”, «e abbiamo capito che era evidente che lui aveva il dovere di rendicontare, di restituire un feedback di quell’incontro», ha spiegato l’ufficiale ai giudici.

Non è stata l’unica frase sopra le righe in un incontro anomalo, almeno vissuto così dai carabinieri convocati al bar da un ex ministro. «Ha raccontato un aneddoto», ha ricordato Cristaldi, «ha detto che lui ha offerto a noi un modello di stato al quale lui si ispirava: uno stato che capace di stare vicino; e ha raccontato un episodio risalente agli anni Ottanta che ha riguardato il generale Ferrari, di cui non ricordo il nome onestamente, dell’Arma dei Carabinieri, che aveva subito una vicenda giudiziaria all’esito della quale era stato assolto. E tramite il ministro dell’Interno del tempo, che era Nicola Mancino, ha fatto un intervento che si è sostanziato in un ristoro delle spese legali che quel generale aveva dovuto sostenere nell’ambito della vicenda che aveva subìto. Per cui qualcuno, all’esito del suo intervento, è andato a casa del generale Ferrari e gli ha portato una valigetta con 70 milioni di lire».

Abbiamo chiesto a Giovanardi lumi su questa vicenda poco chiara: «Ferrari è un eroe, accusato ingiustamente nell’ambito di un’operazione antiterrorismo in Trentino: è venuto da me nel 1992 per raccontarmi del processo ingiusto che stava subendo e del fatto che dopo l’assoluzione avrebbe dovuto pagare di tasca sua i legali, così ho chiamato l’allora ministro dell’Interno Mancino e ho risolto la questione con i fondi del ministero. Chi parla di Ferrari dovrebbe sciacquarsi la bocca prima di farlo».

Gli insulti all’antimafia

L’ex senatore e ministro ha incontrato privatamente molte volte gli imprenditori Bianchini. Era, tuttavia, all’oscuro che durante gli incontri uno di loro, il figlio del titolare, registrava ogni parola.

Gli audio sequestrati nelle prime perquisizioni dell’inchiesta Aemilia provano l’interessamento dell’allora senatore alla causa dell’imprenditore condannato per i suoi legami con le cosche. Alcuni estratti erano stati ascoltati durante le udienze del processo, ora Domani ha ottenuto le versioni integrali. In alcuni passaggi Giovanardi si è lasciato andare in commenti sull’antimafia, che sembrerebbe essere, per i presenti, il vero problema del paese.

Il primo incontro registrato dal figlio di Bianchini è del 12 luglio 2014. Era trascorso quasi un anno dall’interdittiva all’azienda madre, la Bianchini Costruzioni. Le immagini sono confuse ma l’audio è pulito: Bianchini junior consegna dei documenti al politico nel garage di casa Giovanardi, che dopo aver capito di che si trattava commenta: «Ma è roba da matti, roba da matti». L’incontro dura pochissimo.

Sei giorni dopo, in un bar vicino casa dell’ex senatore, un nuovo summit con gli imprenditori. C’è anche Augusto oltre al figlio Alessandro. Il primo a parlare è Giovanardi: «Ho avuto una rissa con il prefetto, dopo che ho parlato con lui ho parlato anche con il questore. Il prefetto mi ha detto che non può togliere l’interdittiva se c’è un parere negativo dell’interforze (il gruppo delle forze dell’ordine che assiste la prefettura nella prevenzione antimafia, ndr)...».

I Bianchini erano interessati a fermare un nuovo provvedimento contro l’azienda che era stata creata da Alessandro dopo l’interdittiva al padre. Giovanardi assicura che avrebbe fatto di tutto per sostenerli, ma prima deve tutelarsi: «Guardate ragazzi à la guerre comme à la guerre, io con questa roba faccio tutta un’interrogazione e la presento, prima mi copro dal punto di vista parlamentare perché quando presento un atto di sindacato ispettivo non sono chiamato a rispondere di nulla, posso fare le cose che mi pare». A quel punto il senatore la spara grossa: «Poi ho detto se fossi in Bianchini prenderei una rivoltella, vengo qua e vi ammazzo tutti. Vi rendete conto che state facendo delle cose folli, folli».

Giovanardi prosegue nell’invettiva contro l’antimafia: «Voi giocate all’inquisizione, ditemelo cosa c’è di altro», è il commento alterato del politico. Senza capire però che il resto non detto dal prefetto era coperto da segreto investigativo. Davanti ai suoi interlocutori seduti al tavolo del bar Giovanardi chiama direttamente uno dei prefetti più importanti d’Italia, Bruno Frattasi, ai tempi coordinatore del Comitato di Coordinamento per l’Alta Sorveglianza delle Grandi Opere, ma tra i più preparati dirigenti di stato sulla normativa antimafia.

Il telefonino di Bianchini ha registrato anche quella telefonata: il senatore voleva convincere Frattasi che gli imprenditori modenesi sono vittime di un’ingiustizia senza pari. Gli autori di questa persecuzione, secondo Giovanardi, sono sempre i soliti carabinieri in cerca di visibilità che usano l’antimafia per fare carriera. «Questi pensano di fare carriera indicando che quello è mafioso, come quel carabiniere della processione». Il riferimento era al maresciallo di un paese della Calabria che ha lasciato la processione del santo patrono dopo che la statua era stata portata sotto casa del boss per l’inchino. O anche «come Saviano» con il suo libro Gomorra.

Tre mesi dopo le prime due registrazioni, è avvenuto un terzo incontro tra i Bianchini e il senatore. L’appuntamento era nello studio di quest’ultimo. Lo smartphone del giovane imprenditore riprende e registra. «Il prefetto è purtroppo un coniglio», esordisce Giovanardi, «pensa a non fare cose che pensa controproducenti per lui stesso». E ancora: «Il legislatore con le interdittive ha fatto una normativa, sbagliando secondo me, per evitare l’infiltrazione mafiosa. Dov’è la mafia, la ‘ndrangheta, la camorra? Cosa c’entra l’infiltrazione mafiosa con uno che si fa un’azienda e inizia a lavorare?».

A quel punto è iniziata l’organizzazione di una conferenza stampa per denunciare l’aggressività delle istituzioni contro i Bianchini: «I carabinieri sono al servizio dei cittadino non della santa dell’inquisizione». Giovanardi sosteneva di aver pesino denunciato un magistrato della Direzione nazionale antimafia per aver scritto nella relazione annuale della super procura voluta da GiovannI Falcone che la ‘ndrangheta in Emilia ha conquistato territorio e menti. E ha speso qualche parola anche per i giornalisti, in particolare per chi firma questo articolo, colpevole di scrivere e parlare troppo di mafie in Emilia. «Ma è possibile che le persone abbiano più paura dello stato che della mafia», ribadisce oggi, «se la denuncia della politica diventa reato è un fatto gravissimo».

Alla fine del summit è stata però la moglie dell’imprenditore interdetto per mafia a mostrarsi preoccupata su eventuali «scheletri nell’armadio». Questione delicata, nell’audio si sente Giovanardi chiedere al figlio di Bianchini se il telefonino che ha in mano fosse spento: «Non per qualcosa, abbiamo detto cose lecite». L’ex senatore oggi dice: «Gli ho chiesto di essere chiari con me, dovevano essere candidi come agnellini se avessimo deciso di intraprendere questa battaglia contro le decisioni della prefettura».

Cosa preoccupava la moglie di Bianchini? Alcune fatture tra la società e aziende del clan, che avrebbero potuto rappresentare un problema. Nell’ufficio di Giovanardi, ai tempi componente peraltro della commissione parlamentare antimafia, Bianchini riferisce di rapporti economici con ditte della ‘ndrangheta, che diventeranno pubbliche solo un anno più tardi con gli arresti dell’operazione Aemilia: «Quando avevamo bisogno di inerti il nostro referente era un certo Giglio (ora collaboratore di giustizia e considerato mente finanziaria della ‘ndrangheta emiliana, ndr), e abbiamo sempre acquistato mezzi e materiale da lui, ma su di lui non c’era niente di ufficiale».

Ma questa storia delle fatture false, chiede il senatore? Risposta di Bianchini senior: «Di incerte ce n’è una... contestata dall’agenzia». La registrazione si interrompe immediatamente dopo, sarà certamente un caso. Ma queste ultime parole dimostrano che Giovanardi qualcosa sapeva degli affari degli amici imprenditori che voleva salvare a tutti i costi dall’antimafia. Lo rifarebbe oggi, alla luce della condanna di Bianchini per complicità con la ‘ndrangheta? «Ritengo di sì, anche se mia moglie non sarebbe d’accordo».

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