I giudici della Cassazione hanno confermato oltre 70 condanne, decise dalla Corte di appello di Bologna, nei confronti degli 87 imputati nel maxi processo “Aemilia” sulla presenza della ’ndrangheta in Emilia-Romagna. Negli ultimi dieci anni nella regione l’antimafia ha concluso indagini complesse sulle articolazioni finanziarie dei clan e i boss hanno minacciato di morte giornalisti e magistrati.

«Terra di mafia», l’ha definita la procuratrice generale Lucia Musti durante un intervento per l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Poche settimane dopo è stata bersagliata dalle intimidazioni. Le parole «terra di mafia», tuttavia, avevano suscitato indignazione tra chi considera la regione al massimo un luogo di passaggio dei business criminali, ignorando così anni di storia.

A partire dagli anni Settanta, in particolare ‘ndrangheta e camorra, hanno trasformato le città emiliane in fortini finanziari. Bologna, Modena, Reggio Emilia, Parma e Piacenza, sono diventate dei «bancomat» delle cosche, per dirla con le parole di Angelo Corte, il primo pentito che nel 2006 ha iniziato a svelare affari e relazioni della criminalità organizzata calabrese in Emilia.

Uno dei primi processi che lo vedeva nei panni del testimone-accusatore è stato celebrato a Modena, nel 2010. L’aula deserta, fatta eccezione per un gruppo di familiari degli imputati, due fratelli narcotrafficanti della ‘ndrangheta che avevano scelto come base Modena, nessun giornalista di altre testate. Così per la Gazzetta cittadina è stato facile uscire con il titolo di prima pagina: «Vi racconto il business della ‘ndrangheta a Modena».

Il quotidiano ha poi dedicato al tema altre puntate. In quegli anni di silenzi e indifferenza era una scelta coraggiosa quella di raccontare ai propri lettori come agivano le mafie nella comunità. Spesso si andava incontro a critiche politiche mosse da chi preferiva non mostrare i problemi del territorio per timore di apparire inadeguato a risolverli. Ma era coraggioso anche perché ci si esponeva alle minacce delle organizzazioni.

C’era dunque diverso materiale per capire cosa stesse accadendo in Emilia-Romagna. Eppure ci sono voluti tempo e un’operazione antimafia per rendersi conto che le mafie non erano solo infiltrate nel tessuto produttivo ma radicate nella società. La differenza è sostanziale: il radicamento presuppone una struttura stabile, dotata di un vasto capitale relazionale con figure esterne all’associazione mafiosa che garantiscono appoggi e favori dentro le imprese “pulite” e nella pubblica amministrazione.

In pratica è l’ultimo stadio di un processo evolutivo, che si sarebbe potuto evitare se i segnali del passato fossero stati colti e non archiviati come ipotesi giornalistiche campate in aria. L’assenza di anticorpi nella politica e nella classe imprenditoriale ha permesso alla ‘ndrangheta di controllare interi settori dell’economia emiliana.

Via Emilia nostra

Che cos’è la ‘ndrangheta emiliana? I vecchi capi mafia di un tempo avrebbero risposto con un’altra domanda: ma che cos’è questa ‘ndrangheta? Noi non l’abbiamo mai vista, forse è qualcosa che si mangia? Piacerebbe ammettere che si tratta di un dialogo frutto delle fantasie di un cronista, purtroppo è quello che è emerso in alcune intercettazioni sulla mafia in Piemonte.

Il capo dei capi della ‘ndrangheta emiliana si chiama Nicolino Grande Aracri, padrino dell’organizzazione in Calabria e di quella distaccata al nord, che ha accumulato condanne su condanne, una delle ultime a 30 anni per un omicidio del 1992. Al suo fianco una schiera di colonnelli che tra Modena e Piacenza hanno condotto la cosca al successo, coordinandosi con il boss ma mantenendo sempre un certo grado di autonomia, almeno per quanto riguarda gli affari quotidiani e meno complessi.

Fatta eccezione per Grande Aracri, la maggior parte dei suoi fedelissimi sono anche imprenditori. Titolari di società edili, di trasporto o della logistica. È un tratto peculiare degli esponenti della ‘ndrangheta emiliana che le ha garantito la possibilità di integrarsi in una società florida offrendo servizi alle cooperative e alle imprese più strutturate alla ricerca di prezzi più vantaggiosi. Per fare un esempio concreto riferito da chi amministra società confiscate alla ‘ndrangheta emiliana: il prezzo di mercato per un trasporto su camion varia da 1,40 a 1,70 euro a chilometro, il clan Grande Aracri lo offriva a 0,90.

Gli esperti di criminalità organizzata hanno spiegato i vantaggi competitivi di un’impresa mafiosa e quindi i motivi alla base della loro offerta di servizi a costi minori della concorrenza. Tra questi c’è il ricorso a risorse finanziarie interne alla cosca che evitano di doversi rivolgere alle banche. Lo scopo dell’azienda, dopotutto, è quello di riciclare denaro e, solo in un secondo momento, guadagnare.

Chi amministra queste ditte, quindi, può permettersi di perdere più del 10 per cento della somma investita perché tanto sarebbe costato affidarsi a un professionista del riciclaggio. Infine vanno considerati il basso costo della manodopera, ricattata e senza possibilìità di ribellarsi, e la possibilità di ottenere carburante per i mezzi attraverso circuiti illegali.

La ‘ndrangheta emiliana è fenomeno criminale ed economico. Non a caso una delle sue specialità è la falsa fatturazione tramite società esistenti solo sulla carta ma inattive. I soldi girano ma la merce, se c’è, resta ferma. Al giochino partecipano anche altre aziende: al clan la falsa fatturazione serve per giustificare entrate in nero, all’imprenditore esterno al clan, complice, permette di abbattere l’imponibile.

Brescello

Come in tutte le storie di mafia nel mondo c’è un luogo simbolo del potere del clan. Ogni colonia della ‘ndrangheta ha un suo centro di gravità: in Emilia è Brescello, paese di 5mila abitanti, bagnato dal Po, set della saga cinematografica di Peppone e don Camillo ispirata ai racconti di Giovannino Guareschi.

Il sindaco comunista Peppone ha però lasciato la scena ai padrini della ‘ndrangheta, che hanno fatto del comune la loro roccaforte. Le ville dei boss sono sorte in una zona poco distante dalla piazza centrale celebre per la chiesa di don Camillo e dove, per ricordare il successo dei film, sono state istallate le statue dei due personaggi.

La quiete di questo luogo, impassibile di fronte alle indagini giornalistiche e alle poche inchieste del passato, è finita il 28 gennaio 2015. Il giorno cioè della retata senza precedenti contro la ‘ndrangheta emiliana: 117 arresti, oltre 200 indagati, milioni di euro sequestrati, l’operazione “Aemilia” della procura antimafia di Bologna e dei carabinieri di Modena, Reggio e Fiorenzuola D’arda.

A Brescello sono stati fermati i colonnelli del capo dei capi Nicolino Grande Aracri. La figlia era stata persino candidata alle comunali anni prima. Un fatto raccontato dall’Espresso, ma sottovalutato da tutti. L’inchiesta documenta dieci anni di strapotere criminale: da Brescello, ai paesi della bassa reggiana circostanti, le aziende della ‘ndrangheta avevano formato un cartello che aveva sbaragliato la concorrenza offrendo prezzi stracciati per il trasporto su gomma.

Le imprese del territorio avevano accettato volentieri quelle tariffe senza farsi troppe domande. Del resto gli ‘ndranghetisti emiliani si presentavano come imprenditori di successo. Il vice del boss Grande Aracri aveva stretto solidi rapporti con uno dei più importanti imprenditori reggiani, con appalti in tutta Italia. Insieme avevano creato anche una società a Malta, il paradiso fiscale d’Europa, grazie ai servizi di un importante studio della Valletta.

Altri uomini di fiducia del capo mafia hanno condotto trattative internazionali per importare carburante dall’estero: interloquivano con uomini d’affari russi e cinesi oltre che italiani. Un’altra ‘ndrangheta rispetto a quella di inizio Duemila. Grande Aracri ha dovuto usare la potenza di fuoco per arrivare al vertice: ha ucciso rivali, maestri e vecchi padrini che governavano l’Emilia in silenzio prima di lui. Ma neppure quei segnali di fuoco avevano allertato gli emiliani. E quando la cosca nel 2004 aveva deposto le armi ha semplicemente preso il posto di chi c’era prima. Nel silenzio, l’alleato migliore della ‘ndrangheta emiliana.

(Continua)

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