La Moldavia è terra di transito per le migliaia di profughi che scappano dall’Ucraina, paese che ospita donne e bambini in fuga dalle bombe russe. Uno dei centri del sistema di accoglienza e trasferimento è la fondazione Regina Pacis, presieduta dal sacerdote don Cesare Lodeserto. Di recente ha incontrato il nostro ministro degli Esteri in visita in quelle terre. Un sorridente Luigi Di Maio, lo scorso 15 marzo a Chisinau, gli stringe la mano mentre annuncia un progetto da dieci milioni di euro per aiutare la Moldavia e i centri di soccorso e accoglienza in collaborazione con l’Unhcr. Di Maio ha elogiato l’opera di don Cesare che si è occupato di accoglienza anche in Italia, ma all’epoca non era finita benissimo.

Quando gestiva il centro di permanenza temporanea San Foca a Lecce si è macchiato di reati per quali, nel 2014, è stato condannato in via definitiva a cinque anni e quattro mesi di carcere, in buona parte indultati. È stato condannato per calunnia, estorsione e sequestro di persona, ma nonostante tutto continua la sua opera.

Una sequela di fatti che raccontano di giovani vittime di tratta che venivano mandate a lavorare in nero in un mobilificio, recluse nel centro a forza senza poter uscire, di accuse false contro chi non si piegava ai voleri del sacerdote. Un regime di dolore e violenza che è stato smascherato da un’indagine della magistratura.

Il centro delle violenze

Facciamo un passo indietro di vent’anni. Siamo nell’estate del 2002, in provincia di Lecce, a San Foca, Marina di Melendugno, dove si trovava all’epoca il più grande centro italiano di accoglienza per migranti e richiedenti asilo, il Cpt gestito dalla fondazione Regina Pacis di don Cesare Lodeserto, ex direttore della Caritas diocesana e segretario particolare dell’allora arcivescovo di Lecce Cosmo Francesco Ruppi.

Un migrante ospite della struttura ha raccontato ai magistrati della procura di Lecce, accompagnato dal suo avvocato, Maurizio Scardia, le vessazioni subite. Ha aiutato gli inquirenti a smascherare l’inganno. «La sua è soltanto una delle tante testimonianze di quelle violenze che raccolsi all’epoca e che sono state tutte decisive nel condannare in maniera definitiva gli imputati di quel primo processo. C’era una vera e propria cortina di ferro all’interno del centro di San Foca, una coltre di omertà che accomunava operatori del centro, carabinieri e lo stesso don Cesare Lodeserto», racconta l’avvocato Scardia.

Il legale è stato il primo esponente della società civile pugliese a rendersi conto di ciò che stava avvenendo. Scardia ha scoperto l’inferno per caso: «Ero andato lì perché ero stato chiamato come avvocato d’ufficio per le convalide dei provvedimenti di trattenimento. E vidi alcuni ragazzi che si lamentavano, tumefatti in volto, che chiedevano di parlare con me. Alcuni di loro mi raccontarono che avevano provato a fuggire. E poi che quando furono ripresi dai carabinieri, gli operatori, e anche don Cesare, li avevano massacrati di botte. Partecipava anche il prelato alle spedizioni. Sembrava un centro di detenzione, più che di accoglienza», dice.

Nel 2005 quando don Cesare è finito in carcere, si è stretto attorno a lui, e non alle vittime, un cordone di solidarietà. Dal governatore della Banca d’Italia a Massimo D’Alema, da Rocco Buttiglione alla ministra Stefania Prestigiacomo fino al cardinale Camillo Ruini hanno espresso vicinanza al sacerdote.

Si è aperto così uno scontro tra chi difendeva quel modello di accoglienza, alimentato da soldi pubblici, e chi si indignava di fronte a quella realtà che veniva ribattezzata “la piccola Guantanamo pugliese”. Dopo i racconti dei primi migranti una mobilitazione composta da attivisti della società civile, operatori sociali, alcuni giornalisti, ha portato all’apertura di un primo processo nei confronti degli autori dei pestaggi, tra cui vi erano, appunto, anche Lodeserto e i suoi sodali.

È arrivata la prima condanna lieve. I giudici però hanno avviato anche un altro processo che ha coinvolto il prete. Nella seconda indagine le vittime erano alcune ragazze che, ospiti nel Cpt di San Foca gestito dalla Regina Pacis, venivano «umiliate e terrorizzate». Hanno scritto i giudici, riferendosi agli imputati: «Usando violenze fisiche e psicologiche, le privavano della materiale disponibilità dei permessi di soggiorno, arrivando a volte a strapparli per contrastare la volontà delle ospiti di allontanarsi definitivamente dal centro».

Una decina tra queste donne, in passato vittime di tratta, con l’associazione del Progetto Libera, hanno deciso di denunciare i loro aguzzini e, assistite dagli avvocati Marcello Petrelli, Maurizio Scardia e Francesco Calabro hanno affrontato un processo che ha portato alla condanna definitiva di don Cesare Lodeserto. Cinque anni e quattro mesi di reclusione per estorsione, calunnia e sequestro di persona. Un verdetto confermato, nel 2014, dalla corte di Cassazione.

La parola a don Cesare

Da allora, il “missionario”, come è stato definito sulla stampa locale pugliese, vive in Moldavia dove gestisce un centro di accoglienza e dove qualche giorno fa ha incontrato il ministro degli Esteri Di Maio. La sua nuova vita era stata anticipata dal Corriere del Mezzogiorno a febbraio.

«Il ministro ha chiesto al sacerdote salentino di continuare in quest’opera meritoria, simbolo di una Italia che anche all’estero si prodiga per gli altri con le sue missioni cattoliche», si legge nel bollettino della diocesi di Lecce, Portalecce, dove è stata pubblicata la notizia dell’incontro, mentre sul sito della Farnesina non se ne trova traccia.

«Abbiamo nove strutture e svolgiamo varie attività con i carcerati, gli anziani, i bambini», dice don Cesare raggiunto telefonicamente. «L’accoglienza avviene in base alle disposizioni dello stato moldavo attraverso centri e rete familiari. Io mi occupo della parte umanitaria. Il ministro si è informato sulle modalità di accoglienza. La fondazione è un ente riconosciuto dallo stato moldavo e autorizzato a fare accoglienza come altri enti che sono sul territorio, io sono il presidente dell’ente». La fondazione ha buoni rapporti con l’ambasciata e con i ministeri moldavi. Del suo passato don Cesare non vuole parlare. «Non ho motivo di parlare con lei di questo argomento», dice.

Lei si occupa nuovamente di profughi e quel passato è molto imbarazzante, cosa è cambiato da allora? «Non è cambiato il vangelo che dice che bisogna occuparsi degli altri e il vangelo per me è permanente indipendentemente da tutto». Oltre al vangelo, però, c’è anche il codice penale da rispettare. «Non nego né l’uno, né l’altro».

Don Cesare chiude la conversazione auto celebrandosi «se qualcuno vuole dirmi qualcosa venga qui, ma deve fare almeno un decimo di quello che faccio io». Dal ministero degli Esteri fanno sapere che il giorno della missione don Cesare era stato delegato dal vescovo a partecipare all’incontro. «La nostra ambasciata in Moldavia intrattiene un rapporto con la diocesi per l’accoglienza dei profughi dall’Ucraina, da ultimo per ospitare 200 italiani fuoriusciti da quel paese, per i quali la diocesi aveva disposto rifugio presso la fondazione Regina Pacis di don Cesare», dicono dal ministero.

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