Quasi la metà dei nuovi casi scopre l’infezione solo dopo la comparsa di sintomi; oltre il 60% arriva troppo tardi alla diagnosi. Nella giornata mondiale Giornata mondiale della lotta all’Aids, emerge il quadro di un’Italia che affonda per informazione inesistente e stigma. La presidente Giupponi: «Sette diagnosi al giorno non sono poche, gli strumenti di prevenzione esistono ma restano ignorati»
L’Italia non è in emergenza. È in letargo sanitario. Contro l’Hiv non si combatte più: si contabilizza. Nel Paese che nel 2024 registra circa 2.500 nuove diagnosi, la politica esibisce una calma cosmetica che non coincide mai con la sicurezza. I bollettini del Centro Operativo Aids e dell’Istituto Superiore di Sanità parlano di «controllo». Ma basta sollevare lo sguardo dalle circolari per vedere la realtà: sette diagnosi al giorno. Ma non solo. L’Italia è il Paese dei late presenter, cioè di persone che scoprono di aver contratto il virus tardi: il 60%. Mentre il 40,3% scopre l’Aids insieme all’Hiv, quando il sistema immunitario è già devastato.
«Non è accettabile che nel 2025 si muoia ancora di patologie correlate all’Aids. Sono morti evitabili. Lo Stato ha smesso di parlare alle persone, noi curiamo i danni del loro silenzio», è il commento di una delle voci più ascoltate nel contrasto al virus, la presidente della Lila, Giusi Giupponi che con precisione chirurgica individua un fenomeno che lo Stato fatica perfino a nominare: «Sette nuove diagnosi al giorno non sono affatto poche, se consideriamo gli strumenti di prevenzione disponibili, a partire dalla Prep, la Profilassi pre-esposizione». Una frase che smaschera l’imbarazzo politico dei fatti nudi: l’Italia ha tecnologie preventive d’avanguardia, ma non una strategia di comunicazione nazionale che le renda accessibili alle persone.
La Prep sconosciuta
In Italia da qualche anno è disponibile, a carico del sistema sanitario nazionale, una pillola blu che protegge dal virus. Una rivoluzione che avviene sotto silenzio e che va sotto l’acronimo di Prep (Profilassi pre-esposizione): si basa sull’assunzione di farmaci antiretrovirali da parte di persone Hiv-negative, per creare una barriera biologica che impedisca al virus di replicarsi nel corpo in caso di contatto. In pratica: si prende prima e durante periodi di maggiore esposizione al rischio, non dopo. Se seguita correttamente e con monitoraggio medico, la Prep riduce il rischio di infezione da Hiv di oltre il 90% nei rapporti sessuali. Non è sperimentale, non è complessa, non è un privilegio: è prevenzione primaria. Eppure, nel 2025, i giovani ventenni non la conoscono. Nessuna grande campagna pubblica gliel’ha mai presentata.
L’educazione sessuale nelle scuole è inesistente, anzi ostacolata. La Tv pubblica non la racconta. I siti istituzionali la parcheggiano in sottosezioni tecniche. È un’arma lasciata chiusa in armeria, mentre fuori la battaglia non viene nemmeno dichiarata. Secondo Lila: le persone, soprattutto eterosessuali, non conoscono o non considerano le modalità di trasmissione dell’Hiv, credono ancora che il problema riguardi solo presunte categorie a rischio.
Diagnosi tardive
Così il 2025 mostra un’altra voragine: quasi la metà delle persone con nuova diagnosi si è testata solo dopo la comparsa di sintomi. Solo un quinto ha chiesto il test per aver riconosciuto un rischio sessuale non protetto. Il resto è ritardo, burocrazia, stigma, o rimozione psicologica del pericolo.
La Lila lo vede dal lato opposto, quello della domanda reale: nel 2025 ha intercettato 2.477 utenti, per un totale di 5.389 test rapidi, 2.419 dei quali per Hiv. Età media: 29,2 anni. Giovani, giovanissimi adulti. Il 43,2% non si era mai testato prima. E il 50,9% non ha usato il preservativo nell’ultimo rapporto sessuale.
Non adolescenti scellerati, ma una generazione cresciuta senza una conversazione nazionale stabile sulla prevenzione, senza un linguaggio adulto che non punti il dito, ma spieghi le possibilità. Per la prima volta nella storia recente della sorveglianza, l’HIV non appare un “tema giovanile” nei dati d’incidenza, superato dalle diagnosi delle fasce adulte e over 50. Ma questo non è un successo istituzionale: è un inganno statistico. Perché la fascia che non sa di doversi testare, che non sa cosa sia la Prep, che non riceve messaggi pubblici su sesso protetto e diagnosi precoce, diventerà il dato che lo Stato commenterà tra dieci anni, come sempre: tardi.
Obiettivi irraggiungibili
È la trappola dell’invisibilità: chi non viene diagnosticato presto non compare nei rapporti. Ma il virus non sparisce: aspetta. L’agenda dell’Onu impone traguardi ambiziosi al 2030: “zero nuove infezioni”, “zero decessi per Aids”. L’Italia non ci arriverà. Lo dice la presidente stessa, testualmente: «L’Italia non raggiungerà entro il 2030 l’obiettivo infezioni zero ma almeno dovrebbe darsi l’obiettivo interno di dimezzarle entro il prossimo quinquennio».
La paura del giudizio, la richiesta di documenti, gli orari d’ufficio, l’assenza di percorsi rapidi, la scarsa alfabetizzazione linguistica dei servizi, respingono i giovani prima ancora del virus. Testarsi non dovrebbe essere un atto eroico dei timidi: dovrebbe essere un’abitudine dei liberi. L’evidenza scientifica U=U (Undetectable = Untransmittable), cioè il principio per cui una persona Hiv-positiva in terapia efficace e con carica virale non rilevabile non può trasmettere il virus al partner sessuale, è ormai confermata da studi vasti e incontrovertibili. La presidente Giupponi, lo sottolinea: la terapia antiretrovirale tempestiva non solo salva vite, ma rende il virus non trasmissibile. Eppure, in Italia, questa evidenza non è ancora diventata parte della comunicazione pubblica né della cultura preventiva nazionale: resta un messaggio trasmesso soprattutto dalle associazioni, non dallo Stato.
Nel contrasto all’Hiv, l’Italia non è senza strumenti. È senza discorso pubblico, e un’epidemia senza discorso non viene combattuta: viene ereditata. La storia recente degli Stati che hanno centrato gli obiettivi non è una storia di farmaci: è una storia di linguaggi politici coraggiosi, messaggi sistemici e test resi routine sociale non giudicante. Che il governo ignora.
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