Sua era la scarpa, suo il piede, suo anche il calcio che ha ucciso. Uno solo e violentissimo. Sferrato al collo della vittima, soffocata dal suo stesso sangue che è sceso fino ai polmoni. L’assassino si è presentato al portone del carcere minorile, ha confessato il crimine, la giustizia ha fatto il suo corso e implacabile è arrivata la condanna per omicidio. Caso chiuso. Chiuso così comodamente e con tanta speditezza che oggi, a sei anni dal delitto, viene complicato chiamare assassino l’assassino.

Nonostante l’ammissione di responsabilità e una sentenza passata in giudicato, nonostante il reo confesso abbia fornito tutte le prove che servivano alla pubblica accusa, preferiamo scrivere di lui ancora come di un “presunto colpevole”.
Per come questa storia ce l’hanno raccontata e per come l’abbiamo ricostruita dal fascicolo processuale, c’è qualcosa di troppo e qualcosa di troppo poco nella morte di un ragazzo massacrato da un altro ragazzo a Palermo. Qualcosa di indicibile che si perde in una città che cambia solo quando si mette in mostra, deformata da un gioco degli specchi dove buoni e cattivi si confondono, dove certe verità sono diventate tali solo per il bollo di un giudice. La morte che il destino ha riservato ad Aldo - per i dubbi sollevati, l’ambiguo contesto, l’impasto indecente della Palermo odierna con i suoi labili confini fra legalità e illegalità - merita quanto meno l’esposizione di un’altra versione che tenga in debito conto la voce dei familiari della vittima. Sulle indagini manchevoli, sulle prove scomparse, sulle piste inesplorate. Perché c’è un assassino che piace eccessivamente a tutti, rassicura tutti, perché consente a tutti di non spingersi in fondo a quel pozzo nero che è la nuova Palermo.
Aldo è Aldo Naro, venticinque anni, neolaureato in Medicina con 110 e lode, ucciso la notte fra il 14 e il 15 febbraio del 2015 all’interno del “Goa”, una discoteca che nella toponomastica ufficiale ricade nel “quartiere San Filippo Neri”, in realtà è dentro l’inferno dello Zen. L’assassino reo confesso è Andrea Balsano, uno di quei buttafuori della discoteca assoldati alla bisogna, abita anche lui allo Zen, in via Rocky Marciano 21. All’epoca del calcio omicida ha diciassette anni e la vita grama degli adolescenti che crescono nelle periferie più estreme.

I cappelli da cowboy 

La cronaca degli avvenimenti è riproposta in una preziosa “Cnr”, comunicazione notizie di reato, un’informativa dei carabinieri di 191 pagine dalla quale gli inquirenti non ne hanno tratto - almeno questa è la sensazione - le dovute conseguenze.

Aldo Naro, figlio di un colonnello dell’Arma che è il capo della polizia giudiziaria al Tribunale di Caltanissetta, la notte del 14 febbraio 2015 è al “Goa” insieme alla sua fidanzata Simona Di Benedetto e altri sette fra amici e amiche. Sono dentro un privé, i tavoli sono tre. Uno è il loro, poi c’è un secondo tavolo con dieci ragazzi e un terzo tavolo con venti ragazzi.

È la notte di San Valentino, le casse “pompano” Give it e le altre hit disco dei Power Francers. Aldo arriva all’una, la notte è lunga.

Un paio d’ore dopo, i suoi amici si accorgono che sono spariti dal loro tavolo due cappelli da cowboy. Li ha presi qualcuno seduto lì accanto. Accade tutto in quindici minuti, dalle 3 alle 3,15. Ne nasce una discussione, molto animata.

Al tavolo di Aldo Naro ci sono giovani medici, negli altri due tavoli molti ragazzi con precedenti per spaccio, qualcuno è imparentato anche con personaggi “pesanti” dello Zen, gente schedata come vicina a organizzazioni mafiose. I cappelli non vengono restituiti, i giovani medici sbeffeggiati, spintoni, la discussione si trasforma quasi in rissa. Quasi.
Aldo Naro è mascherato da Joker, l’acerimmo nemico di Batman. Cerone bianco sulla faccia, un nastro di seta viola come cravatta. Anche un altro suo amico, Giuliano Bonura, è Joker, un po’ di rossetto in più sulle labbra e un papillon grigio.

Sono attimi di tensione e tutto precipita quando nel privé irrompono, all’improvviso, sei “addetti alla sicurezza” . Tre - Gabriele Citarrella, Benito Zammiti e Francesco Troia - hanno un tesserino di riconoscimento. Gli altri - Andrea Balsano, Pietro Covello e Filippo Zito - sono abusivi. Sono tutti dello Zen, ingaggiati per evitare che altri ragazzi dello Zen entrino in discoteca. Guardie del territorio per arginare le esuberanze del trritorio, manovalanza fuorilegge assunta per assicurarsi tranquillità.

Da rissa a massacro

La rissa non è più una rissa, è un massacro. Una telecamera registra per un secondo una scena, è un fotogramma. Aldo Naro, seduto su una poltrona, si alza e non si capisce se lo fa spontaneamente o è costretto a forza. Poi il pestaggio. Con Francesco Troia e Pietro Covello che trascinano Aldo fuori dal privé, insieme rotolano dalla scale che scendono al guardaroba.

Pochi istanti dopo «mentre Aldo Naro era intento a rialzarsi, Balsano Andrea gli sferrava un violento calcio al capo». Aldo è a terra in fin di vita e Massimo Barbaro, uno dei proprietari della discoteca, ordina a due buttafuori di sollevarlo e portarlo in un giardinetto. Adesso Aldo è immobile. I suoi amici lo circondano, si accorgono subito che respira a fatica, sta per morire. Chiamano il 118: «Serve un’ambulanza velocissima». L’operatore di turno: «Invece di dire velocissima, si attenga a rispondere alle domande...». Poi la conversazione prende una piega assurda e alla voce che chiede aiuto l’operatore grida: «Ma scassaci la minchia..».

L’ambulanza alla fine arriva. E sull’ambulanza che corre verso l’ospedale di Villa Sofia Aldo Naro non c’è più. È stato Andrea a ucciderlo con quel calcio? Solo lui? E gli altri autori del pestaggio? Perché i buttafuori si accaniscono soltanto su Aldo che, a detta dei testimoni, è su una poltrona e non partecipa alla fase iniziali della rissa?
A centocinquanta chilometri dall’ospedale palermitano di Villa Sofia, nel paese di San Cataldo, sono le 6 del mattino. Il comandante provinciale dei carabinieri di Caltanissetta, il colonnello Angelo De Quarto, suona al campanello di casa Naro. Sale le scale di una palazzina, una porta si apre, il colonnello De Quarto è davanti al suo collega della polizia giudiziaria. Gli sussurra parole di circostanza: «C’è stata una rissa, Aldo è rimasto ferito..».

Il colonnello Naro e sua moglie Annamaria sono su un’auto dei carabinieri, destinazione Palermo. Per tutto il viaggio - un’ora e mezza - la madre chiama il cellulare di Aldo. Squilla a vuoto. Arrivati a Villa Sofia, l’auto imbocca subito il vialetto che porta alla camera mortuaria. La donna se ne accorge: «In quel momento è come se mi strappassero la pelle di dosso».

Aldo è su una lastra di marmo, coperto da un telo, la madre lo solleva e comincia a fotografare il corpo martoriato del figlio. «Guarda come te l’hanno ammazzato», le dice il marito. In quel momento, nessuno sa ancora cosa è accaduto esattamente qualche ora prima alla discoteca Goa. Rissa, parlano solo di una rissa. Qualcuno aggiunge anche: «È scivolato e ha sbattuto la testa».

L’autopsia, il giorno dopo, all’istituto di medicina legale del Policlinico, la fa il professore Paolo Procaccianti. Non partecipano un avvocato né un consulente di parte. Viene eseguita anche una Tac in tutto il corpo. Intanto, i carabinieri cercano chi ha ucciso Aldo. E perdono tempo, messi su una falsa pista da Massimo Barbaro, «il quale, così come aveva già dichiarato ai primi militari dell’Arma intervenuti sul posto, forniva una serie di elementi ben precisi asseritamente utili all’identificazione dell’autore del fatto, elementi questi però rivelatisi in seguito del tutto falsi e fuorvianti».

Barbaro descrive «una persona i cui tratti fisionomici non trovavano corrispondenza con nessuna delle persone a lui vicine nel momento della commissione del reato», non dice niente dei buttafuori abusivi assunti per evitare gli scavalcamenti del recinto della discoteca, scarica tutto sugli addetti “regolari” alla vigilanza del locale.

Tra Addiopizzo e i boss 

I carabinieri scoprono le due facce dei Barbaro che sono poi le due facce di Palermo oggi: i proprietari del Goa da una parte si servono di malacarne dello Zen per mantenere l’ordine e dall’altra sono iscritti ad Addiopizzo, un piede di qua e un piede di là, la copertura di un’associazione “per la legalità” e sotto sotto i metodi di sempre.

Dopo l’omicidio di Aldo quelli di Addiopizzo sospendono il Goa dalla loro rete, probabilmente avrebbero dovuto controllare meglio prima. A garantire la tranquillità ai Barbaro nella loro discoteca c’è Giuseppe Militano, figlio di Carmelo e fratello di Francesco, tutti e due «esponenti di Cosa Nostra attualmente detenuti poichè responsabili del reato di cui all’articolo 416 bis».

Sono due capi della mafia dello Zen, il territorio dove c’è il Goa. Prima è Francesco Militano che fa la guardiania, quando viene arrestato - nel giugno del 2014 - il suo posto lo prende il fratello Giuseppe.

In sostanza i Barbaro, attraverso il loro uomo di fiducia Francesco Meschisi, contattavano esponenti di Cosa Nostra che a loro volta ingaggiavano «quattro padri di famiglia che avevano bisogno» impiegandoli in servizi di sorveglianza. Un pizzo mascherato.

Tre giorni dopo l’omicidio, Marcello Barbaro, fratello di Massimo e comproprietario della discoteca, entra allo Zen con in mano un megafono. Si aggira per le strade del quartiere lanciando messaggi all’autore dell’omicidio: lo invita a costituirsi. Scrivono i carabinieri nella loro informativa: «In tale circostanza lo stesso esponeva la scritta “Io sono Aldo Naro”».

Il plateale comportamento, verosimilmente animato più dalla volontà di trovare un risalto mediatico che da quello di supportare le attività investigative, contrastava con la sua scarsa collaborazione dimostrata nel corso delle dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria».

«Gli serviva a tutti un nome»

Ma torniamo alla notte dell’omicidio di Aldo. Ricordi confusi, testimonianze contraddittorie, indicazioni depistanti.  Dal ventre dello Zen però esce all’improvviso un nome. Quello del ragazzo che ha sferrato il calcio mortale al giovane medico. La prima soffiata dice che l’autore è “tale Andrea”, minorenne, nipote di Francesco detto “U’ Patata”, piccoli precedenti per spaccio. Viene identificato come Andrea Balsano, nato a Palermo il 24 giugno 1997. I carabinieri entrano a casa sua allo Zen, in via Rocky Marciano 21. Ma il ragazzo non c’è, è scomparso.

Vanno anche dallo zio Francesco “Patata”, non c’è neanche lì. Lo zio, fra le lacrime, dice che il nipote «si è consumato», ammette che è l’omicida. Poi chiede ai carabinieri «due ore per parlare con alcune persone», vuole rintracciare Andrea e convincerlo a consegnarsi. Le due ore passano e lo zio non si trova più.

Il giorno dopo Andrea Balsano si presenta puntuale al carcere minorile Malaspina di Palermo, accompagnato da un avvocato. Lo sistemano in una cella con altri giovanissimi detenuti, la cella è microfonata.

È il 20 febbraio del 2015, cinque giorni dopo l’omicidio di Aldo Naro. Andrea racconta ai compagni cosa è accaduto in discoteca, ricostruisce vagamente la dinamica della rissa, parla del calcio, il suo calcio. Dalle intertecettazioni affiorano i primi sospetti. Detenuto 1: «Ma chi minchia ti ci ha portato?». Andrea: «Ma se gli serviva a tutti il nome». Detenuto 2: «E ti stai ammuccando (ti stai facendo, ndr) la galera?». Detenuto 1: «Come si chiama questo ragazzo». Andrea: «Giuseppe». Detenuto 2: «Non è che lo hanno preso è..». Andrea: «Perché facendo questo nome perdiamo..».

Annotano i carabinieri: «Il Balsano Andrea confermava di essersi consegnato per "dare un nome all’autore del fatto", lasciando così intendere che lo stesso aveva dovuto sottomettersi alla volontà di terze persone..». E continuano: “Nella stessa conversazione il Balsano faceva un esplicito riferimento a "Giuseppe”, persona che si ritiene identificarsi nel più volte menzionato Militano».

I genitori non ci stanno

Andrea resta in carcere, il colpevole è servito, il delitto della notte di San Valentino risolto. Ma il padre e la madre di Aldo non ci stanno. Per loro comincia una lunga, dolorosa battaglia alla ricerca di un’altra verità. Sono tanti i dettagli fuori posto. A iniziare dalla rissa. Nessuno dei presenti al privè quella notte, gli amici di Aldo, ha un ematoma, una contusione, un solo graffio. Eppure c’è stato un putiferio (almeno questa è la versione ufficiale) che ha coinvolto almeno una dozzina di ragazzi.

Com’è possibile, pugni e pedate furiose e solo un ferito che poi è morto? Ed è stata davvero solo una rissa o un pestaggio premeditato? L’obiettivo era forse proprio Aldo? E perché? Anche le deposizioni degli amici di Aldo portano a niente. Tanti silenzi, tanti "non ricordo”.

Qualcuno sussurra dalla gelosia di Aldo che quella notte vede la sua ragazza con un buttafuori, vicini, mentre lui le lega un braccialetto al polso. Qualcun altro parla di uno scambio di persona. Qualcuno altro ancora di una vittima “a caso”, uno qualcunque da uccidere per imporre il racket della protezione. Tutte piste che una dopo l’altra svaniscono. «Ancora sappiamo ben poco anche se c’è un imputato che ha confessato e che è stato condannato», spiegano Salvatore e Antonino Falzone, gli avvocati che assistono la famiglia Naro.

E aggiungono: «Noi non condividiamo l’impostazione dell’accusa, non abbiamo mai creduto a un solo colpevole perché Aldo Naro è stato assassinato da più persone». Raccontano di indagini lacunose, di indizi tralasciati, di personaggi mai coinvolti nelle investigazioni.

I genitori di Aldo non si arrendono. E sul profilo Facebook “Giustizia per Aldo Naro” pubblicano le foto dell’autopsia eseguita sul cadavere di Aldo. E’ uno choc, le immagini sono da brividi. Il padre: «È una cosa grave, lo comprendo, ma abbiamo deciso di dire basta. Aldo ha una mamma e una sorella. Abbiamo appena iniziato a mostrare all’opinione pubblica tutte le incongruenze emerse nelle indagini. Non possiamo più stare zitti». I rapporti fra i genitori di Aldo e alcuni inquirenti si deteriorano.

Il padre denuncia un colonnello dei carabinieri, un giorno ha un violento scontro anche con uno dei sostituti procuratori che seguono le indagini. È Carlo Marzella. Il padre di Aldo si presenta nella sua stanza e gli dice: «Sono un ufficiale di polizia giudiziaria e credo che le indagini abbiano delle smagliature». Il pm ribatte: «Non si permetta, la notte non ci dormiamo su questo caso, l’indagine è impeccabile». Il padre di Aldo è messo alla porta. Ma subito dopo qualcosa si muove.

La nuova autopsia e le falle nell’inchiesta

Al Tribunale di Palermo non la pensano tutti come i pubblici ministeri. È nel febbraio 2019, esattamente quattro anni dopo l’uccisione di Aldo, il giudice delle indagini preliminari Fernando Sestito non crede che sia stato solo il minorenne dello Zen a uccidere Aldo e trasmette gli atti in procura “per le valutazioni di competenza nei confronti di Gabriele Citarrella, Francesco Troia e Pietro Covello", tre dei buttafuori della discoteca. E’ un altro sguardo investigativo.

Anche perché nel frattempo un nuovo pubblico ministero chiede la riesumazione del cadavere, vuole una seconda autopsia. La ordina un altro gip, Filippo Serio. I risultati sono clamorosi. Scrivono i periti: «Al contrario di quanto affermato nell’autopsia del 14 febbraio 2015 l’azione traumatica non è stata dovuta a un unico colpo ma da molteplici colpi contundenti in sequenza rapida sferrati nella regione cranica». E’ un colpo di scena che semina a catena incertezze su tutta l’indagine. Gli avvocati di parte civile si accorgono che dal Policlinico di Palermo non è mai stata acquisita nel fascicolo processuale la Tac eseguita sul cadavere di Aldo, poi scoprono che è anche sparita dal sistema informatico del Policlinico. E scoprono che il cellulare di Aldo risultava sequestrato in un verbale ma per quattro giorni era rimasto in possesso della fidanzata, di telecamere della discoteca visionate con ritardo, di una pista droga mai scandagliata nonostante i molti elementi presenti nell’informativa.

Troppe dimenticanze, troppe disattenzioni. E forse anche qualche “fonte confidenziale” che gli apparati polizieschi palermitani hanno voluto tenere al riparo, che non hanno voluto bruciare “solo” per la morte in discoteca di un ragazzo. Meglio far passare per “visionari” un padre e una madre, genitori che sragionano “perché impazziti dal dolore". C’è odore di patti sotterranei nelle investigazioni sulla tragica morte di Aldo. 
Ai margini dell’inchiesta per omicidio, una seconda indagine - per rissa - si conclude con condanne a due anni per Pietro Covello, Mariano Russo e Giovanni Colombo. La sentenza è del febbraio 2019, a marzo di quello stesso anno Giovanni Colombo uccide dopo una furiosa lite allo Zen due uomini, padre e figlio, con dieci pistolettate. Colombo abita anche lui allo Zen, anche lui in via Rocky Marciano, al civico 23, Il portone accanto a quello di Andrea.
Il reo confesso torna a casa sua alla vigilia di Natale del 2020 dopo una condanna a dodici anni in primo grado, scesa a nove in appello. Dopo averne scontati cinque Andrea, «che ha avuto un percorso di ravvedimento» pur non offrendo alcun contributo utile all’indagine e senza avere mai presentato nemmeno le sue scuse alla famiglia Naro, è affidato ai servizi sociali.

Lavora in una pasticceria, non può uscire di casa prima delle 7 e non può rientrare dopo le 21, non può frequentare bar, discoteche e sale da gioco. Il reo confesso e presunto colpevole vaga come un fantasma per Palermo con il suo segreto.

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