Soldati forzati nella guerra civile contro il generale Haftar, o se va bene impiegati come operai nella ricostruzione degli edifici del carcere e base militare di Mitiga. Oppure becchini, costretti a seppellire i corpi senza vita di quelli che poco prima erano stati i loro compagni di cella.

Sono le storie dei ragazzi migranti sopravvissuti alle “cure” di Njeem Osama Almasri Habish nei lager libici di Al Jadida e soprattutto della famigerata prigione-base di Mitiga, per quasi tutti tappa forzata verso l’Europa, a volte sia prima che dopo il viaggio della speranza nel Mediterraneo.

E proprio dalle testimonianze dirette dei migranti che muove i primi passi l’indagine della Corte penale internazionale, che ha spiccato il mandato di cattura per il generale Almasri, rilasciato e rimpatriato per volere del governo di Giorgia Meloni.

Testimonianze come quelle di Lam Magok Biel Ruei e David Yambio, tramite JLProject, un collettivo che da anni si occupa di aiutare legalmente le persone illegalmente respinte in Libia e ne custodisce anche i documenti, costituiscono il nucleo del procedimento contro il capo della polizia giudiziaria della Libia, per torture, stupri, omicidi ai danni dei suoi ostaggi migranti.

Se una notizia Matteo Piantedosi l’ha data, mercoledì nel question time al Senato, è che ora anche per l’Italia un soggetto così di spicco in Libia, paese con cui Roma è in molteplici affari, va considerato un personaggio che mette a rischio «la sicurezza e l’ordine pubblico».

E per questo, secondo il ministro dell’Interno, andava espulso immediatamente: poco importa se la sua pericolosità si esplichi poi proprio lì dove è stato rimandato. Oggi come 5 anni fa.

Schiavi di Almasri

Siamo nel 2019-2020, David e Lam, entrambi sud sudanesi, hanno la stessa sventura, quella di essere catturati dalle forze libiche e condotti Al Jadida. E poco tempo dopo tradotti a Mitiga: schiavi, come tutti gli altri, sotto il pugno di ferro di Almasri. «Mi ha arruolato a forza nelle sue milizie» che combattevano contro quelle del generale Haftar, nell’interminabile e sanguinosa lotta di potere della Libia del post-Gheddafi. «Sono stato costretto da questo assassino a sollevare bombe, caricarle. Poi mi ordinava di sparare, mentre lui si nascondeva. È stato un momento terribile, mi sento davvero deluso dal mondo».

«Assassino», lo chiama David, e senza scrupoli, perché «per tre volte l’ho visto uccidere delle persone: la prima ad Al-Jadida, poi due volte a Mitiga». A lui è andata meglio dei suo compagni uccisi, nel senso che non è morto: «Mi frustava con un tubo di plastica, mi prendeva a calci sulle gambe, mi chiamava schiavo e tante altre cose disumane». Violenze fisiche e psicologiche dalle quali uscire è più difficile che da una prigione: «Sono scappato da Mitiga nell’aprile del 2020, ma Almasri me lo ritrovo ancora puntualmente nei miei incubi. Per questo sono così frustrato per la sua liberazione».

Lam invece a Mitiga è rimasto fino a novembre del 2020, dopo tre mesi passati ad Al Jadida, ma la sua agonia inizia il 18 febbraio dello stesso anno, quando la Guardia costiera libica intercetta il barcone con lui a bordo, in una operazione che secondo quanto risulta a JLProject ha avuto l’ausilio della missione Sophia, la prima operazione militare di sicurezza marittima lanciata dall'Unione europea.

Quando Haftar bombarda il centro-base di Mitiga, viene messo a ricostruire gli edifici distrutti «e a raccogliere e seppellire i cadaveri e ammassare armamenti nei magazzini sotterranei. Ma anche mentre ricostruivamo, di tanto in tanto continuavamo a bombardare. Avevo paura, non vedevo come sarei mai potuto uscire vivo da lì».

Anche Lam ha conosciuto le minacce e le violenze di Almasri sulla propria pelle. «Quando sono arrivato ho chiesto ad Almasri cosa io ci facessi lì, che non avevo fatto niente. Mi ha risposto "don’t blame me”, non prendertela con me. Ci puntava la pistola contro. Poi quando ho tentato di scappare mi ha torturato con delle scosse elettriche, alle gambe, per non farmi scappare più».

Di una cosa è sicuro Lam: «Almasri è noto per la sua crudeltà. È di gran lunga la persona più temuta a Tripoli». Un capo che non fa sconti a nessuno, «neanche ai detenuti libici» a meno che non ci sia qualche parente in grado di pagare per il riscatto, ma a Lam non hanno proposto neanche questo: «Almasri non mi ha mai chiesto soldi». Però l’ha fatto un tribunale di Stato dopo la cattura: «Mi hanno detto che per 2000 dinari mi avrebbero rimandato in Sudan invece che in prigione, ma sapevo che non era vero». L’evidenza del fatto che Almasri in fondo è solo la punta visibile di una piramide di sfruttamento strutturata e organizzata dentro gli apparati dello stato ormai grande amico dell’Italia in chiavi anti immigrazione.

Senza giustizia e verità

Quelle di David e Lam sono storie a lieto fine: entrambi in Italia, il primo continua l’impegno per i diritti delle persone migranti tramite l’associazione Refugees in Lybia, il secondo è rifugiato ed è assistito a Roma dalle attiviste e attivisti di Baobab Experience che lo stanno sostenendo nella sua rivendicazione e testimonianza.

Ma dal pomeriggio del 21 gennaio i loro incubi sopiti sembrano essersi risvegliati. «Ci sono tanti ragazzi a Roma che hanno vissuto lo stesso incubo e che fanno fatica a parlarne, ma la domanda di tutti è: perché lo hanno rilasciato?». David sceglie l’ironia, che è «la mia più grande amica, l’ho conservata anche a Mitiga, sorridendo come fossi nel paradiso dei miei sogni», e ricorda: «Chi come noi parla, chi denuncia alla Corte Penale Internazionale, chi produce documentazione, rischia la vita. E dopo tutto questo sforzo, dopo aver risvegliato i nostri incubi peggiori, ecco che arriva la delusione di un governo come quello italiano, democratico, che dovrebbe rispettare le decisioni della Corte penale internazionale».

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