Anas Zenzami era nato in Marocco l’11 luglio 1986. Non ha compiuto ancora 29 anni quando, il 15 Aprile 2015, viene arrestato dai Carabinieri di Urbania (Pesaro) in esecuzione di un ordine di carcerazione della procura di Roma emesso il 1/4/2015.

Deve scontare un anno e sei mesi di reclusione per una sentenza del 12/11/2012 con la quale veniva condannato, senza sospensione condizionale della pena, per resistenza a pubblico ufficiale e per aver fornito generalità false.

Divenuta definitiva la sentenza, ecco quindi l’ordine di esecuzione che, però, viene emesso il 22/10/2013, con contestuale sospensione concedendo al condannato la possibilità di chiedere misure alternative alla detenzione entro 30 giorni evitando, così, il carcere. Il provvedimento viene tuttavia notificato, il 13/11/2013, au un avvocato del foro di Roma il cui nome non risulta indicato.

La sospensione viene quindi revocata e Anas, ignaro, viene portato nel carcere di Pesaro. Interviene allora un avvocato pesarese che chiede al Tribunale di sorveglianza di Ancona di poter ottenere, per Anas Zenzami, il beneficio della detenzione domiciliare. Viene cosi fissata udienza per il 21 ottobre 2015. La pena è esigua e i reati di modesta gravità. Anas ne ha diritto. L’esito è scontato ma il ragazzo marocchino deve attendere che la burocrazia faccia il suo corso.

La detenzione

Il 15 aprile, dunque, fa ingresso in carcere. Ma quel detenuto in realtà non sta bene. Le sue condizioni di salute mentale vengono riconosciute dalla stessa amministrazione penitenziaria come incompatibili con il carcere pesarese di Villa Fastiggi.

Viene prescritto infatti «in maniera perentoria e continuativa un regime di grande sorveglianza» e «la necessità di un ricovero in un ambiente idoneo alla valutazione e alle cure», nonché il «trasferimento in tempi brevi in un centro di osservazione Psichiatrica» e viene di nuovo «raccomandata un’attenta sorveglianza».

Lo spettro del possibile suicidio è più che concreto. Sono plurime e reiterate le annotazioni nel diario clinico del detenuto, in tal senso, alle quali nessuno pare prestare attenzione. Ad Anas basterebbe attendere poco più di quattro mesi per uscire e riottenere la libertà ma non se ne rende conto.

Mette in atto numerosi episodi di autolesionismo. Non si vuole farsi visitare e rifiuta cure, acqua e cibo. Vengono osservati in lui stati di delirio e agitazione psicomotoria. Nell’agosto dello stesso anno viene ricoverato per tre volte all’ospedale di Pesaro «a causa di un forte stato di anoressia, disidratazione e steatosi epatica».

Il tentato suicidio

LaPresse

Il 5 settembre tenta il suicidio in carcere provando ad impiccarsi. Gli viene diagnosticata una grave psicosi paranoide. Viene allora trasferito all’istituto di osservazione psichiatrica di Ascoli Piceno dove vi rimane ricoverato una ventina di giorni per poi essere dimesso come “guarito”.

La burocrazia può tutto. Anche risolvere una grave malattia psichiatrica di un detenuto privo di importanza in 20 giorni con soli nove giorni di terapia effettivamente somministrata. Il detenuto Anas Zenzami viene rispedito il 24 settembre al carcere di Pesaro. Sono dichiarate cessate le ragioni del ricovero ma viene disposta nuovamente la sua «massima sorveglianza con controlli da eseguire ad intervalli massimi di 15 minuti» per prevenire eventuali nuovi tentativi di suicidio.

La prescrizione non viene rispettata e il giorno dopo il suo arrivo Anas viene trovato nella sua cella impiccato. Morto. In un paese normale tutto ciò sarebbe inaccettabile e le responsabilità evidenti sarebbero perseguite. Si tratta della vita di un giovane essere umano.

La procura di Pesaro, tuttavia ritiene che si tratta di «un evento letale non previsto, non prevedibile ed inevitabile». Non è dello stesso avviso il Tribunale che respinge ben tre richieste di archiviazioni. Passano gli anni e in questo ingiusto e surreale pin pong si approssima la prescrizione. Alla mia opposizione, per la quarta richiesta di archiviazione, il Gip si arrende. Archivia.

Di quel detenuto non importa nulla a nessuno tranne che a al sottoscritto, Antigone e all’avvocato Antonella Mascia che mi aiuta a presentare ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Ci crediamo. Lo facciamo perché gli è stato negato il sacrosanto diritto alla vita e gli sono pure stati inflitti trattamenti disumani e degradanti. Quelli che per la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo vengono qualificati come tortura. Lo facciamo per la sorella di quel povero ragazzo, per Vania Borsetti di Antigone che tanto si è impegnata coi suoi ragazzi.

Il parere della Corte europea

Il 24 novembre scorso arriva la notizia: la Corte europea ritiene fondato il nostro ricorso. Non pronuncia ancora sentenza ma invita il governo Italiano a trovare un accordo transattivo, per evitarla, con la famiglia di Anas Zenzami che abbia a oggetto, tra le altre cose, la corresponsione di un’indennità risarcitoria di 32 mila euro.

Nel sancire questo rivolge al governo alcune semplici domande che suonano come delle rasoiate per il nostro sistema giustizia: «Vi è stato un fallimento nel proteggere la vita del fratello della ricorrente, come garantito dall’articolo 2 della Convenzione? Nello specifico, le autorità nazionali conoscevano o avrebbero dovuto essere a conoscenza di un rischio reale ed immediato per la vita  di Anas Zenzami? Hanno fallito nel prendere le misure adatte nell’ambito dei propri poteri che, ragionevolmente, si può presumere avrebbero evitato quel rischio? Riguardo all’aspetto processuale della protezione del diritto alla vita, le indagini delle autorità nazionali sono state eseguite  in questo caso in violazione dell’articolo 2 della Convenzione?».

Nel formulare il quesito la Corte ricostruisce l’iter non risparmiando pesanti censure al nostro sistema giudiziario. «Il fratello della ricorrente è stato sottoposto ad un trattamento inumano e degradante in violazione all’articolo 3 della Convenzione? Nello specifico, le autorità responsabili hanno disatteso il loro obbligo di assicurare che la salute del fratello fosse adeguatamente garantita, fra le altre cose, fornendogli un’assistenza medica appropriata ed efficace?».

Ora il Ministro della Giustizia dovrà rispondere a tutti questi capi d’accusa. Dovrà chiedere conto alla procura di Pesaro sul mancato rispetto dell’articolo 112 della nostra Costituzione. Ma soprattutto su come possa aver ritenuto «non prevedibile, non previsto ed inevitabile l’evento letale».

L’indipendenza e autonomia della magistratura sono sacri ma altrettanto sacra deve essere la loro responsabilità. Anas Zenzami è morto di cinica indifferenza che ha saputo trasformare l’esercizio di una delicatissima funzione giudiziaria in sorda burocrazia. Anas Zenzami non avrebbe dovuto stare in carcere. È morto a pochi giorni dalla sua liberazione. Qualcuno si deve fare un bell’esame di coscienza.

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