Senza stipendio da quattro mesi, a giugno 2012 stava collaudando uno stampo per materiali metallici. Ha perso entrambi gli arti in un macchinario senza dispositivi di sicurezza. L’azienda per cui lavorava è fallita e non lo ha risarcito. «Ero una persona che non doveva chiedere mai, facevo tutto da solo. D’improvviso mi sono ritrovato a dipendere dagli altri per tutto». «Poi sono arrivate le prime protesi e ho cominciato a nuotare»
È un lunedì di giugno, le giornate si sono già fatte calde ed è arrivata anche l’ultima settimana di scuola. Più che libri e quaderni, Kevin ha in mente il blu di quell’acqua in cui si è tuffato il giorno prima. Da Castelfidardo, paesino marchigiano sulle colline anconetane, il mare dista appena una manciata di chilometri. Così quella mattina del 4 giugno 2012, poco prima di scendere dalla macchina di fronte alla scuola, riesce a strappare al padre Andrea la promessa di una nuotata nel pomeriggio.
Chiusa la portiera, Andrea Lanari si avvia verso il lavoro. Si occupa di realizzare stampi per materie metalliche e, nonostante non percepisse stipendio da quattro mesi, si reca comunque in azienda per il collaudo di un calco realizzato il giorno precedente. L’operazione dovrebbe prendergli qualche ora.
La mezza giornata di ferie per il pomeriggio è già segnata, in quel lunedì afoso anche per lui il pensiero della spiaggia si avvicina.
«Nella ditta dove lavoravo non c’era una pressa adeguata alle dimensioni dello stampo e così, come da accordi, sono andato a fare il collaudo in un’altra azienda. Il titolare inserisce lo stampo all'interno del macchinario. Io inserisco la lamiera da tranciare e poi sento una scossa che mi percorre tutta la colonna vertebrale. La pressa si rialza e in quel momento mi accorgo che le mie mani e parte degli avambracci erano rimasti interamente schiacciati», ricorda Andrea Lanari.
Ed è esattamente sotto quel rumore metallico che, a 34 anni, la sua vita sembra fermarsi. «Ricordo il sangue che colava, rossastro come il ferro fuso. E mentre fisso queste mani a pendoloni, penso di lasciarmi morire lì. In quel momento però mi scorre davanti agli occhi l’immagine di mio figlio che mi aspettava fuori dalla scuola per andare al mare. Poi quella di mia moglie che, qualche giorno prima, aveva scoperto di essere di nuovo incinta. In quel clima di panico generale – continua Andrea – mi vengono in mente delle nozioni di primo soccorso che mi aveva spiegato un mio collega che faceva il volontario della Croce Rossa. Dico a chi mi sta intorno di legarmi le braccia con un cavo elettrico in modo da arrestare l’emorragia».
Ed è qui che ai suoi ricordi subentra la consapevolezza, al risveglio sul letto d’ospedale, «che purtroppo sarei rimasto con dei monconi sotto il gomito vita natural durante. Gli strascichi dell’incidente non li ho subiti solo io ma anche la mia famiglia».
La forza di volontà
Quelli che seguono sono mesi di calvario, dove la sofferenza per l’autosufficienza perduta sotto la pressa si mischia allo sguardo giudicante e compassionevole della gente. «Ero una persona che non doveva chiedere mai, facevo tutto da solo. Nei sei mesi necessari per la fornitura del primo paio di protesi, invece, ero totalmente alle dipendenze di chi mi assisteva e questo mi faceva soffrire: il prurito, un bicchiere d’acqua… Tutto diventava doloroso. Da qui pianti, fallimenti, arrabbiature, spesso e volentieri anche voglia di lasciarsi andare».
È la volontà di farcela, davanti allo sguardo dei figli e di chi gli vuole bene, a prendere il sopravvento. Pian piano inizia a migliorare e poi la sua mente ritorna a pensare al mare. «Nel 2016 entro in acqua per la prima volta con tantissima paura. Alla tenera età di 39 anni non ero neanche in grado di rimanere a galla. L’anno successivo mi laureo campione regionale sia per dorso che per stile», racconta Andrea.
Ben presto la piscina inizia a stargli stretta, i ricordi ritornano al figlio e alla schiuma del mare. «Per una scommessa mi son ritrovato il 2 luglio del 2024 sulla spiaggia del Pilone di Torre Faro. Mio padre era scomparso quattro giorni prima e, con accanto mio figlio Kevin, ho attraversato a nuoto lo Stretto di Messina senza protesi», racconta Andrea commuovendosi.
«Quando sono arrivato dall’altra parte, bracciata dopo bracciata, il cronometro segnava un’ora, ventisei minuti e ventisei secondi. Lì mi hanno detto di esser stato la prima persona in assoluto ad aver attraversato a nuoto lo Stretto senza l’ausilio delle protesi».
Durante quei tre kilometri e mezzo tanti i pensieri. A cominciare da quella pressa che ha cambiato la sua vita e che, quel giorno, non avrebbe dovuto abbassarsi. «Quel macchinario non era a norma, non aveva alcun tipo di dispositivo di sicurezza per impedire l’inserimento di parti del corpo all’interno dell’area di lavoro. Né il titolare mi aveva informato, né io ne ero a conoscenza perché anche la pressa che usavo quotidianamente ne era sprovvista. Pensavo che fossero dei macchinari totalmente funzionanti. Ho poi capito che erano funzionanti per fare produzione, non erano funzionali per proteggere le persone che ci lavoravano», dice Andrea.
Se la sentenza di primo grado aveva obbligato i responsabili delle due aziende a versargli 100mila euro di risarcimento, dopo quella di secondo grado di quella somma Andrea non ha ricevuto quasi nulla. L'azienda dove lavorava ha dichiarato fallimento mentre la seconda – dove è avvenuto l'incidente – non aveva un'assicurazione contro gli infortuni.
«Quei soldi non mi avrebbero fatto ricrescere le mani – ci tiene a sottolineare – però magari mi avrebbero permesso di avere delle protesi più avanzate». Oggi invalido all’80%, Andrea Lanari continua a nutrirsi della sua forza di volontà. La stessa che l’ha portato a non lasciarsi rubare la sua vita da una pressa insicura, a farlo ritornare a nuotare con il figlio Kevin, lasciandosi accarezzate dalla schiuma dello Stretto di Messina, e che quotidianamente lo spinge a fare formazione sulla sicurezza sul luogo di lavoro con la cooperativa sociale ANMIL Pro. Quest’ultima, oltre a rendere i luoghi di lavoro più sicuri attraverso la consapevolezza, cerca anche di reinserire in contesti lavorativi chi ha subìto degli infortuni gravi.
«Il nostro più grande risarcimento – conclude Andrea – è far sì che con la nostra testimonianza si possano prevenire incidenti come i nostri».
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