Il 25enne lavorava alla Silfa di Sulbiate, un’azienda di packaging specializzata nella trasformazione di lamiere in lattine, senza aver ricevuto una vera formazione. L’incidente nel 2019, con un macchinario che, per risparmiare, non veniva spento durante la pulitura. «Non gli avevano fornito l’abbigliamento necessario, aveva le scarpe antinfortunistiche del lavoro precedente. La visita medica? Risaliva al giorno della sua morte». Oggi quelle bobine vengono spente quando vanno pulite
A metterla in allarme è una chiamata insolita alle dieci del mattino. Dall’altro capo del telefono c’è Giorgia, la fidanzata di Gabriele Di Guida. Ha appena saputo che gli è successo qualcosa durante il turno alla Silfa di Sulbiate, l’azienda di packaging dove il figlio ha da poco trovato lavoro. Ester Intini, come ogni madre al suo posto, ha già capito. Si precipita a telefonare all’azienda. Diverse chiamate a vuoto, qualcuno riattacca. Lei insiste e riesce a farsi passare il magazzino.
«Quando chiedo di Gabriele mi dicono di andare lì per parlare con i carabinieri e la polizia. Realizzo che quella sarebbe stata la giornata più brutta della mia vita, il giorno che nessuna mamma vorrebbe mai vivere».
Arrivata sul posto «vedo questo via vai di gente fuori dall’azienda. Operatori televisivi, vigili del fuoco, carabinieri e tre ambulanze. Vedo qualche collega di Gabriele e gli chiedo se mio figlio stesse lavorando sulla macchina che nei giorni precedenti non aveva funzionato. Cosa potevano dirmi? Gli era stato imposto il silenzio assoluto. Poi vedo anche mio marito avanzare verso l’autombulanza e a un certo punto sviene. Si accascia per terra. Lui che era sempre stato quello forte. Con lui è caduta anche la nostra vita».
Ester cerca di restare lucida, trova la forza di avvicinarsi ed è allora che gli dicono «l’ultimo battito di Gabriele è stato nel momento in cui è arrivata». Quando parla del figlio venticinquenne a Ester Intini brillano gli occhi. La sua storia gli si legge quasi in volto. Nulla di eccezionale, semplice normalità.
Il sogno di una famiglia e l’impresa di trovare lavoro
«Gabriele poteva essere il figlio di chiunque. Era un ragazzo molto vivace, la sua voglia di vivere era immensa. Dopo aver fatto l’alberghiero, inizia a lavorare. Voleva farsi una famiglia con la sua ragazza. Mi diceva “un giorno entrerò da quella porta con mio figlio, disperato perché non ha dormito tutta la notte e tu mi dirai che è proprio come me”, visto che per tre anni tutte le mie notti le ho passate con lui in braccio», ricorda Ester.
Con in testa il pensiero di diventare presto autonomo, Gabriele si dà da fare. «Passa da tante aziende, ma ci resterà solo per sei mesi visto che poi, puntualmente, nel momento di concretizzare la cosa non va mai in porto. Poi arriva alla Silfa: per la prima volta fa un colloquio diretto e non mediato dalle agenzie. Gli dicono che dopo sei mesi il contratto sarebbe diventato a tempo indeterminato. Lui era felicissimo perché finalmente vedeva la sua vita iniziare a prendere forma».
La packaging Silfa è un’impresa specializzata nella lavorazione di lamiere che vengono trasformate in lattine. Nonostante fosse un’azienda conosciuta per la sua attenzione alla sicurezza e con quasi ottant’anni di storia alle spalle, Ester capisce che c’è qualcosa di strano.
una nuova mansione
«Gabriele ci raccontava che doveva stare molto attento perché rischiava di farsi male. Non gli avevano fornito neanche l’abbigliamento necessario. Mio figlio è morto con le scarpe antinfortunistiche del lavoro precedente. Nessuno gli aveva fatto una visita medica. Abbastanza strano visto che un medico del lavoro prima dovrebbe testare la tua idoneità all'impiego. Hanno poi trovato su un foglio Excel una visita che risaliva al 12 di aprile. Io e mio marito quel giorno eravamo dietro al vetro per riconoscere il suo corpo», racconta.
Ad allertare i genitori è anche un altro elemento: dopo nemmeno 40 giorni il figlio viene promosso da fine-linea a capolinea. Gabriele non ha nemmeno il tempo per essere felice visto che, come ricostruito anche dalle sue conversazioni su WhatsApp, per lui iniziano giorni di grande stress. Il suo nuovo lavoro si svolge all’interno di una cabina dove si trova un macchinario che, a una temperatura elevata, si occupa della verniciatura dell’alluminio che poi verrà trasformato in lattina.
Il macchinario, davanti al quale si trova una semplice corda a un metro da terra, è composto da tre rulli. Alle due estremità quelli con la vernice e, in mezzo, quello che va più veloce e che fa muovere la lamiera. Nella fattispecie il compito del capolinea è quello di passare sotto la corda, andare alla base del rullo principale e - a macchina accesa - pulirlo per evitare la formazione delle micropolveri che avrebbero prodotto 16 metri di lamiera di scarto. Pulizia che avveniva con una sorta di «lungo cotton fioc» o a mano se quest’ultimo non era nei paraggi.
«Dopo averlo fatto affiancare dal suo amico Donato per una quindicina di giorni, è stato messo a lavorare in autonomia. Mi ricordo che una settimana prima aveva anche avuto un problema di versamento della vernice: era tornato tutto blu a mezzanotte dicendo che si era fermato a pulire tutto perché non voleva che quelli del turno della mattina trovassero sporco. Alcuni giorni prima dell’incidente aveva dei problemi con questa macchina e, come si legge dai sui messaggi, chiedeva aiuto a tutti. Voleva sentirsi adeguato al lavoro che gli avevano affidato, ma essere adeguato non vuol dire essere formato».
Stritolato per 28 minuti
Così si arriva a quel 10 aprile 2019. Gabriele esce di casa con la maglia della sua squadra del cuore, il Milan. Arrivato a lavoro offre il caffè ai colleghi, anche a quello juventino che lo prendeva in giro per la sconfitta del sabato precedente. Poi entra nella cabina. Quel giorno si verniciava con il verde e il beige. Nei paraggi il cotton fioc non c’era e così pulisce a mano il rullo principale. Ed è lì che, probabilmente, il suo guanto si incastra nella bobina trascinandosi dietro anche il suo corpo.
«Rimarrà stritolato dalla macchina per 28 minuti. Nessuno si era accorto di nulla. A un certo punto la figura jolly che lo affiancava in alcune manovre va in cabina, ma non lo trova. Chiede così al RSPP (responsabile del servizio di prevenzione e protezione, ndr) dov’era Gabriele. Si girano e lo trovano crocifisso a due metri d’altezza».
Come emerge dalle successive indagini, il macchinario era stato progettato senza alcun tipo di griglia e «durante la pulitura veniva tenuto acceso in modo da risparmiare sui tempi di raffreddamento e di riscaldamento. Mio figlio, sostanzialmente, è morto per salvare 16 metri di lamiera dalle micropolveri».
Il titolare della Silfa e il responsabile per la sicurezza hanno patteggiato 11 mesi, 14 quelli patteggiati da chi ha progettato e venduto il macchinario. Dopo la morte di Gabriele, le bobine – ancora oggi in funzione – vengono spente durante la pulitura.
Ester, invece, si è rimessa a studiare sui libri e oggi, insieme ad ANMIL, entra nelle scuole a fare formazione sulla sicurezza con la speranza che a nessuna madre venga più strappato via il proprio figlio per risparmiare 16 metri di lamiera.
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