«Su Aemilia è stata avviata da questo ministero un’attività ispettiva e conoscitiva, che al momento risulta coperta da segreto». La guerra all’antimafia del ministro Nordio non conosce pause. Aveva esordito in parlamento, parlando di intercettazioni, contro taluni magistrati accusati platealmente di vedere la mafia ovunque, di sopravvalutare il fenomeno. Ora, l’ultimo atto: gli ispettori nella procura antimafia che ha condotto una delle più imponenti operazioni contro le cosche degli ultimi dieci anni, il processo Aemilia contro la ‘ndrangheta, il più grande mai celebrato al nord. Sentenze definitive, ormai, con un totale di 110 condannati. La certificazione che la ‘ndrangheta in Emilia esiste dagli anni Settanta, ha interloquito con la politica, con l’imprenditoria nata e cresciuta sulla via Emilia, ha offerto ogni genere di servizi alle imprese del territorio e si è servita dei migliori professionisti su piazza. 

La guerra contro il pm

Tutti soddisfatti, dunque? Macché. Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia sostengono che la procura antimafia di Bologna all’epoca guidata dall’esperto Roberto Alfonso ( certamente non sospettabile di vicinanza al Pd) abbia coperto il partito democratico.

L’alleanza di governo per sorreggere questa tesi sta sfruttando l’atto di accusa di Roberto Pennisi, magistrato in pensione che in servizio dalla procura nazionale antimafia era stato applicato all’inchiesta emiliana. Pennisi a distanza di sette anni si scaglia contro uno dei pm, Marco Mescolini, che ha coordinato l’indagine contro le cosche. Pennisi sostiene di aver avuto un conflitto profondo con Mescolini su alcune posizioni che avrebbero condotto l’indagine sul rapporto tra mafia e pubblica amministrazione, quindi il Pd; Pennisi, per esempio, avrebbe voluto fare di più su Graziano Delrio, ex primo cittadino, che in campagna elettorale nel 2009 andò in viaggio in Calabria, a Cutro, in piena campagna elettorale per la processione del paese, lì dove si trova la casa madre della super cosca che ha conquistato l’Emilia Romagna. Pennisi avrebbe voluto, ma, dice, è stato fermato. 

Di certo i magistrati che hanno condotto Aemilia di politica ambigua ne hanno trovata e l’hanno anche processata: tutti di centro destra, berlusconiani per l’esattezza. Uno, Giovanni Paolo Bernini (in passato presidente del consiglio di Parma, collaboratore dell’ex ministro del governo Berlusconi, Pietro Lunardi), è stato prescritto, l’altro, Giuseppe Pagliani, un tempo capo dell’opposizione in consiglio comunale a Reggio Emilia, è stato assolto in primo grado, condannato in appello e prosciolto poi definitivamente. Dall’indagine Aemilia è scaturito anche lo scioglimento del municipio (a guida Pd) di Brescello, primo comune emiliano a fare una fine del genere. 

L’ex procuratore di area conservatrice Alfonso, molto legato peraltro a Pennisi, in una recente intervista ha ribadito che il coordinamento dell’indagine era suo e che nessuno a coperto niente. Per lui le prove sono fondamentali. Su Pagliani e Bernini c’erano indizi e frequentazioni, intercettazioni. Nel caso del primo anche una cena coi vertici della cosca, mentre per Bernini la corte d’Appello che lo ha prosciolto per prescrizione dal reato di corruzione elettorale ha scritto: «Accertata l’esistenza del patto corruttivo elettorale tra Bernini e Villirillo (uno dei capi della ‘ndrangheta, ndr), ritiene la Corte di confermare tanto l’inquadramento giuridico della condotta, quanto la pronuncia di prescrizione effettuate dal giudice di prime cure in sentenza». 

Nordio e Palamara

La destra imputa però la colpa della mancata indagine sul Pd e la mafia a Mescolini. Per puntellare il sospetto i politici coinvolti in Aemilia ricordano l’esperienza del pm fatta al ministero durante il governo Prodi.

Un fatto però è certo, il primo politico emiliano condannato per mafia c’è e si chiama Giuseppe Caruso, arrestato quando era presidente del consiglio comunale di Piacenza iscritto ed eletto con Fratelli d’Italia. Il verdetto di appello è di 12 anni, il reato è associazione mafiosa. Un uomo delle istituzioni locali non complice, ma ritenuto un vero affiliato. Su questo però la destra preferisce non commentare. 

Mescolini, dopo il primo grado del processo Aemilia, era andato a dirigere la procura di Reggio Emilia. Dopo poco sono state rese note le chat di Luca Palamara, l’ex toga che muoveva i fili delle nomine nel Consiglio superiore della magistratura finché non è stato travolto dall’indagine di Perugia. Chat in cui anche Mescolini chiedeva lumi a Palamara sul giorno in cui il consiglio avrebbe votato per lui. Il Csm ha deciso perciò di trasferire il pm del più grande processo contro la mafia al nord. Il disciplinare in altri casi è stato più tollerante. Per esempio con Rosa Patrizia Sinisi, vicina a Unicost e presidente della Corte d’Appello di Potenza: chattava molto con Palamara, ma è rimasta al suo posto. Da qualche giorno è stata chiamata dal ministro Nordio a ricoprire l’incarico di vice capo del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria. Proprio da Nordio, che definiva il sistema Palamara un verminaio. 

Alle chat su Mescolini (sulla sua posizione deciderà il Consiglio di stato nei prossimi giorni) si sono aggiunte gli esposti inviati al Csm da un gruppo di magistrate di Reggio in cui accusano l’ex procuratore, oggi in servizio a Firenze e in attesa della sentenza del consiglio di stato sulla suo trasferimento, di aver rallentato inchieste sul partito democratico. 

Normalizzare

Il processo Aemilia ha scritto la storia della lotta alle cosche a tal punto da essere citato, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario 2023, nella relazione del primo presidente della corte di Cassazione Pietro Curzio alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

«C’è il tentativo di normalizzare dopo la stagione di Aemilia e dei tanti filoni nati successivamente», dice uno dei detective che ha seguito in prima linea l’indagine. Normalità, dopo la bufera che ha portato la destra in Emilia a confrontarsi con i processi in cui sono emersi contatti tra politica e mafia. In uno di questi, a Modena, è imputato l’ex senatore e ministro berlusconiano, Carlo Giovanardi, accusato di avere fatto pressioni sui carabinieri per salvare un’azienda (il titolare è stato condannato per concorso esterno alla mafia) dall’esclusione dagli appalti pubblici. Processo, tuttavia, bloccato grazie a un voto del Senato che ha ritenuto le sue azioni compiute nell’esercizio delle funzioni di parlamentare. La palla è passata alla Corte costituzionale, che dovrà decidere se cancellare il processo o lasciare che sia il tribunale a giudicare il Giovanardi. Per Nordio e la destra, tuttavia, il problema è l’antimafia. 

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