Pistole e giustizia fai da te, due pilastri per la Lega. Che tornano purtroppo d’attualità dopo l’omicidio di Voghera. Non lo sono solo per il il partito a vocazione nazionale di Matteo Salvini, lo erano anche per la Lega Nord di Umberto Bossi.

Un trait d’union tra passato e presente, tanto quanto i 49 milioni che il Capitano deve allo Stato per la truffa sui rimborsi elettorali del fondatore Bossi. Salvini sembra voler ripercorrere i passi del fondatore, che per primo ha cercato di facilitare la concessione dei porti d’armi e ha fatto modificare la legge sulla legittima difesa. Quel testo fu cambiato nel gennaio del 2006: una modifica fortemente voluta da Bossi, festeggiata come una vittoria. Lo stesso articolo, 13 anni dopo, finirà nel mirino di Salvini che, dopo un’incessante campagna mediatica, vi farà scrivere: «la difesa è sempre legittima».

Ma la passione per il mondo delle armi - fatti di ammiccamenti, interventi legislativi e vicinanza alla lobby - non appartiene solo al vecchio e al nuovo leader. È da sempre presente anche tra sostenitori ed eletti del partito, che ne fanno bella mostra. E ogni tanto finiscono per sparare.

Le sparate del Senatur

Pallottole e fucili. Dagli anni ‘90, quando la Lega Nord si affaccia alla politica nazionale come forza antisistema, sono molte le uscite del segretario Bossi sull’uso delle armi. Nel settembre 1993 dichiara («ironicamente», preciserà poi) che «La vita di un magistrato vale solo 300 lire, il prezzo di una pallottola». Due anni dopo: «Mao Tse Tung ha scritto: “Il potere politico nasce dalla canna del fucile”».

Non sono solo parole quelle su un popolo del Carroccio armato. Le armi vengono trovate, anche dalle forze dell’ordine: Bossi era sempre accompagnato da una scorta di “camicie verdi” con pistole regolarmente denunciate o con i numeri di matricola abrasi, tanto da attirare le attenzioni dell’Ucigos, la polizia antiterrorismo dell’epoca. Anche nel nuovo millennio il Senatur non ha fatto mancare “sparate”. Come nel 2007: «Noi padani non abbiamo mai tirato fuori il fucile, ma c'è sempre una prima volta». O nel 2013, negli ultimi mesi da segretario: «Meno male che, qui in Valtrompia, ci sono ancora le armi. Un giorno serviranno...».

Leghista a mano armata

Non ci sono solo le armi ritrovate dalla polizia a fine anni ‘90. Se Bossi ne parlava tanto, altri leghisti ne hanno fatto bella mostra. Come quando, nel 2015, l’ex deputato e allora sindaco di Borgosesia Gianluca Buonanno (morto in un incidente automobilistico nel 2016, ndr) mostrò una pistola nel corso di un’intervista a SkyTg24: «È meglio che il cimitero si riempia di delinquenti piuttosto che a pagare siano sempre i cittadini», afferma. Gesto che fece scandalo, più della frase pronunciata. Lui spiega che voleva solo illustrare un’iniziativa del suo comune: «Non capisco queste proteste, quanta ipocrisia».

Non è l’unico caso di pistole a favor di camera. Nel 2019, viene pubblicato un video di Stefano Solaroli, candidato ed eletto in consiglio comunale a Ferrara nelle liste della Lega, in cui mostra la sua Beretta. Il video farà montare le polemiche: lui dirà che quella ripresa era di anni prima e artefatto.

C’è anche chi spara. E non solo Massimo Adriatici. L’assessore alla sicurezza di Voghera eletto nelle liste del Carroccio, martedì sera ha ucciso il 39enne di nazionalità marocchina Youns El Boussetai con un colpo partito dalla sua pistola. «L’arma ha sparato accidentalmente», ha detto il politico - conosciuto nella cittadina del pavese come “lo sceriffo” - ai magistrati che lo accusano di eccesso colposo di legittima difesa. 

Un altro candidato leghista è Luca Traini, il nazifascista che nel 2018 sparò all’impazzata per le strade di Macerata, ferendo sei migranti: è stato condannato dalla Cassazione a 12 anni per strage. Traini aveva una licenza per armi a uso sportivo. Alle elezioni del 2017 si era candidato al consiglio comunale di Corridonia con la Lega Nord: prese zero preferenze. «Non vedo l’ora di andare al governo per riportare sicurezza in tutta Italia, giustizia sociale, serenità. Chiunque spari è un delinquente, a prescindere dal colore della pelle», le parole del segretario della Lega dopo la tentata strage. Nessuna parola contro il movente razzista dell’attentato, né contro le armi.

Il Capitano e la lobby

È il 9 febbraio 2019, a poche settimane dalla modifica della legge sulla legittima difesa, l’allora vicepremier Matteo Salvini visita la Fiera delle armi di Vicenza. Per l’occasione imbraccia un fucile per il tiro al piattello. «Il mio scopo è non complicare la vita a chi detiene un’arma», dice ai presenti.

Un mese dopo viene assegnata alla Commissioni Affari Costituzionali della Camera una proposta di legge della deputata leghista Vanessa Cattoi, per velocizzare l’iter di acquisto di un’arma per la difesa personale e aumentare la potenza di fuoco delle armi a vendita libera. L’obiettivo del testo - mai arrivato in aula - è «rendere più agevole la vita a chi vuole acquistare un’arma». Quasi le stesse parole di Salvini.

L’impegno del Carroccio per una maggiore liberalizzazione del mercato delle armi trova spiegazione, non solo nella passione della sua base nel Nord, ma anche in una «assunzione pubblica di impegno a tutela dei detentori legali di armi», un documento firmato da Salvini durante la campagna elettorale del 2018. La firma lo vincola a coinvolgere la lobby delle armi in qualsiasi provvedimento che la riguardi. Il documento è presentato dal Comitato D-477, dal nome della direttiva del Parlamento europeo che vuole limitare la circolazione delle armi, contro la quale si batteva (oggi si chiama Unarmi, ndr). Leghisti e pistole: una storia fatta di leggi e lobby. E sfortunatamente anche di sangue.

 

© Riproduzione riservata