Quattro anni dopo Lara Lugli, un nuovo caso: Asia Cogliandro in conflitto con Perugia Volley. Per via della sua netta preponderanza di tesseramento femminile (ma anche di un programma di assistenza più avanzato che in altre federazioni), la pallavolo è ancora una volta campo di battaglia, E fa da termometro della deficitaria garanzia riservata, nel mondo dello sport, a un elementare diritto di cittadinanza
Un altro caso di diritto alla maternità negato nella pallavolo? Il tema irrompe dopo l’intervista rilasciata a Giulia Zonca, del quotidiano La Stampa, da Asia Cogliandro, atleta che fino a pochi mesi fa era tesserata dalla società Black Angels Perugia Volley. E il pensiero non può che correre al precedente di Lara Lugli e del suo conflitto col Pordenone Volley: esploso nel 2021 con una citazione per danni inviata all’atleta, in risposta alla sua richiesta di vedersi corrispondere l’ultima mensilità di stipendio a due anni di distanza dalla conclusione del rapporto contrattuale.
Fra la vicenda di Lugli e quella di Cogliandro intercorrono quattro anni. Un lasso di tempo che ha visto il volley femminile italiano toccare picchi assoluti grazie ai trionfi della nazionale guidata da Julio Velasco (le Olimpiadi del 2024 e la Nations League nello scorso fine settimana). Purtroppo, alla scalata verso l’eccellenza agonistica del movimento volleistico femminile non corrisponde un avanzamento nell’affermazione di uno fra i più elementari diritti di cittadinanza, qual è quello alla maternità. Né si deve cadere nella semplificazione di presentare questo problema come se fosse un’esclusiva del volley.
Piuttosto, c’è che il volley diventa un punto di osservazione privilegiato per valutare il ritardo che continua a cumularsi nel rendere effettivo il diritto alla maternità. E il motivo di questa significatività della pallavolo sta nel fatto che, storicamente, è una delle discipline sportive che registra una – persino netta –preponderanza del tesseramento femminile rispetto a quello maschile.
Come riferiscono i dati elaborati dalla federazione (FIPAV), relativi al 2024, il numero degli atleti è 81.352 mentre quello delle atlete è 275.146 (77,18 per cento del totale). Ha dunque un senso che questa disciplina sportiva, più di altre in Italia, si trasformi in un terreno privilegiato per la produzione di cortocircuiti sul tema delle discriminazioni di genere.
Gli insufficienti ammortizzatori sociali
Nel corso dell’intervista, Cogliandro ha dichiarato di avere subito pressioni psicologiche oltre al danno economico e professionale. Dal canto suo, la società umbra ha risposto con una nota nella quale smentisce la versione della sua ex tesserata e offre una versione alternativa.
Ci sarà tempo per stabilire quali siano gli esatti termini della questione. Per il momento rimane la realtà di un diritto che, per le sportive professioniste (aggettivo da intendersi in accezione larga: condizione in cui i redditi da attività sportiva sono parte preponderante o totale dei redditi da attività lavorativa), è tutelato in modo estremamente carente. La legge di bilancio 2018 ha istituito un “Fondo unico a sostegno del potenziamento del movimento sportivo italiano”, che destina parte delle risorse al “sostegno della maternità delle atlete”.
La cifra stanziata dipende dall’ammontare complessivo del fondo. Per il 2025 è 1 milione di euro. Le atlete che ne beneficiano si vedono garantire “fino a un massimo di dodici mensilità” (erano dieci fino al 2024) da 1.000 euro. Nel caso delle volleiste, la cifra viene integrata con ulteriori 500 euro mensili stanziati nel quadro del programma “La maternità è di tutti”, stilato dalla FIPAV a partire dal 1° gennaio 2022, in conseguenza del caso che coinvolse Lara Lugli.
Ma quanto ha inciso il fondo governativo? Una parziale risposta si trova nella pagina web del Dipartimento Sport del Consiglio dei Ministri. L’aggiornamento dei dati si ferma a gennaio 2023 e vi si trovano pure i nomi e i cognomi delle atlete beneficiarie (cosa che sarebbe stato meglio evitare) con menzione della disciplina sportiva praticata. Da questa fonte web risulta che, fino ai primi mesi del 2023, sono state 77 le atlete a beneficiare del sostegno, con un picco nell’anno solare 2019 (21 richieste accettate). Dunque, si tratta di una previsione che rimane residuale, vincolata com’è a una serie di escludenti condizioni d’accesso. Siamo, sì e no, al primo miglio.
Cosa succede altrove
Se la situazione italiana è largamente carente, come funziona altrove? Va rimarcato che un ruolo importante è giocato dagli attori istituzionali internazionali.
Nel 2020 ha battuto un colpo la Fifa: quattordici settimane di congedo di maternità obbligatorio e retribuito, con corresponsione di due terzi del salario. Il numero di settimane di congedo si innalza a ventisei nel caso della Rugby Football Union inglese. Si rimane lontani da standard soddisfacenti, ma la comparazione con altri attori istituzionali fa scoprire che in altri casi si fa anche meno. O nulla.
Nel basket, la FIBA ha implementato nel 2023 un programma per le donne arbitro, affinché non vengano escluse dall’attività durante il periodo di congedo di maternità. Ha lasciato il segno l’accordo di tutela della maternità stipulato dalla Women’s Tennis Association (WTA): dodici mesi di congedo retribuito. Una grande conquista, che però ha una controindicazione: a finanziare il welfare delle tenniste è il Public Investment Fund (PIF) saudita.
Ciò che ha fatto prefigurare immediatamente le prospettive di sportswashing. Il fine giustifica i mezzi? Interrogativo più che mai complicato da sciogliere.
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