L’Atalanta è la Dea della corsa in onore al suo nome mitologico e la Dea della coerenza in onore del suo progetto sportivo. Nessuna deviazione da una linea che è stata tracciata otto anni fa con il suo massimo aedo, l’allenatore Gian Piero Gasperini.

Non c’è stata crisi, e ce ne sono state, che abbia fatto deflettere dal percorso che ha portato alla conquista, l’altra sera, dell’Europa League.

Fin dall’origine fiducia nei giovani, che arrivino dal prolifico vivaio o che siano acquistati a basso costo soprattutto nelle periferie del calcio patinato, per plasmarli, formarli e rivenderli a prezzi ultra-maggiorati ai club spendaccioni e perciò indebitatissimi.

Accanto, l’imperativo di strutturare una società con solide fondamenta, perché non conta l’oggi ma il domani, il futuro: i campi d’allenamento e la forestiera del settore giovanile di Zingonia, gioiello invidiato, lo stadio di proprietà acquistato dal comune e ormai quasi interamente rifatto, un salotto.

Conti in ordine

Dogma assoluto i conti in ordine, tipico della mentalità bergamasca e di un imprenditore, Antonio Percassi, che in nerazzurro fu calciatore, non per caso un roccioso stopper come si definiva allora il centrale di difesa.

Sette bilanci in positivo consecutivi sono la logica conseguenza, una rarità nel calcio delle pazzie finanziarie e dello sprofondo rosso, in nome del proverbiale adagio per cui non si deve fare il passo più lungo della gamba: si rischia lo stiramento.

E quando si è trattato di scovare un partner che contribuisse a sostenere il peso finanziario della nuova dimensione assunta dal club si è scelto un americano, Stephen Pagliuca, che rappresenta sì un fondo di investimento, ma ha lasciato il comando ai Percassi e sa di sport essendo anche co-proprietario dei Boston Celtics, franchigia pluridecorata dell’Nba di basket.

L’allenatore

Sulla gestione della squadra, il capovolgimento della prassi solitamente in voga per cui davanti a segni di malumore si caccia l’allenatore.

Quando Silvio Berlusconi fu messo da Arrigo Sacchi davanti al dilemma «o io o van Basten», il campione più rappresentativo, scelse van Basten.

Percassi nella stessa situazione di incompatibilità conclamata vendette il Papu Gomez, l'eroe dei tifosi, e si tenne Gasperini per proseguire nella filosofia sposata di un gioco propositivo e di attacco.

Si tenne Gasperini anche nei momenti critici di un rapporto con un uomo che per autocertificazione ha un carattere ruvido, del resto si dice di qualcuno che ha un brutto carattere se un carattere ce l’ha.

Né ha mai sofferto d’invidia, il presidente, quando grazie ai risultati e al suo gioco rivoluzionario nella vulgata è diventata «l’Atalanta di Gasperini»: un pegno molto volentieri pagato in virtù degli orizzonti che apriva.

Le cessioni

C’è infine il capitolo delle dolorose cessioni. Gli Ilicic, i Muriel, i Zapata sono stati tanta parte dell’epopea, ma la gratitudine che spesso inganna non si è spinta al punto di una perpetuazione della loro presenza quando età e acciacchi consigliavano la separazione.

Per sostituirli non si è scelta la scorciatoia di atleti già affermati, si è puntato, di nuovo, su ragazzi di prospettiva, Scamacca, De Ketelaere, Lookman, Scalvini, Ruggeri, Carnesecchi: la semina paziente per un raccolto posticipato ma fecondo.

Ci sono voluti otto anni per alzare un trofeo, e che trofeo, in un viaggio altrettanto bello della meta, accompagnato da una città intera, Bergamo, che ha condiviso fino in fondo le strategie perché la squadra le somiglia.

C’è da chiedersi come mai una storia così felice non abbia fatto scuola in un mondo del calcio soffocato da mille guai. C’è solo da augurarsi che dopo mercoledì sera qualcuno si ricreda e cominci l’imitazione. L’Atalanta non è più la bella perdente (sconfitta in tre finali di Coppa Italia). Ora svetta sui tetti d’Europa.

© Riproduzione riservata