L’attacco globale ai diritti, su scala sempre più ampia e accelerato, che va dall’autocrate ungherese al tycoon americano, richiede una reazione collettiva. «Serve un momento di confronto a sinistra, non è più rinviabile: è paradossale – e lo dico io che vengo dalla tradizione del cattolicesimo di sinistra, non da quella comunista – che i sovranisti facciano l’internazionale», ha detto Rosy Bindi, ex ministra della Salute e della Famiglia, all’evento di Domani in piazza di Pietra.

L’entusiasmo per la vittoria di Zohran Mamdani a sindaco di New York ha restituito speranza e, come ha sottolineato Francesca De Benedetti – nell’introduzione al panel intitolato “Da Orbán a Trump, la guerra globale contro i diritti”, all’interno dell’evento di due giorni Il Domani delle donne – «ha rimesso in circolo idee e immaginario». Eppure l’attacco ai diritti è imponente, trasversale e rapidissimo, messo in atto con grandi risorse finanziarie.

Diritti, voti e urne

Ma la strategia dell’attacco ai diritti riguarda non solo l’Europa, ma un fronte globale: «Come cambia la natura degli attacchi ai diritti e come reagire a questa deriva che annichilisce?». Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty International Italia, ha ricordato che i momenti di difficoltà in campo dei diritti umani «sono un ciclo», dove vi sono anche fasi di discontinuità che possono regalare sorprese: «Contro l’architettura dell’autoritarismo - che è l’impunità - a metà anni ‘90 nacquero due tribunali speciali e poi la Corte penale internazionale. Ci fu una risposta che mise d’accordo tutti intorno allo slogan: “Non c’è pace senza giustizia”. Spero che questo possa essere un momento simile». Per Noury: «Noi movimenti per i diritti umani dobbiamo stare al passo con i tempi e dobbiamo riutilizzare la parola resistenza. Resistenza nelle strade, nelle piazze, con le nostre modalità non violente».

Per Nadia Urbinati, docente alla Columbia University, politologa e firma di Domani, non è sufficiente riempire le piazze, scrivere manifesti o firmare petizioni: «Bisogna andare a votare. Il potere del voto è quello che ferma queste derive. Abbiamo il “potere del numero”, sempre temuto da oligarchi di tutte le generazioni e di tutti i tempi». Per la professoressa «una resistenza di opinione può aiutarci, anche una scheda bianca se non ce la si sente, ma mai restare a guardare».

Negli Stati Uniti c’è un rischio di autoritarismo, e la speranza «viene dalla Federazione e dai luoghi decentrati». La speranza, come a New York, è che il voto «possa determinare un rovesciamento futuro». Il timore reale, conclude Urbinati, è che «chi ha sempre usato, come Trump, la legislazione di emergenza – cambiandone il nome – è probabile che usi il suo potere per mettere in campo una politica di paura delle elezioni per tentare di sospenderle. Solo dalla democrazia, che è numero e voto, viene la risposta».

Welfare, salute e capitalismo finanziario

C’è più di un nesso, a livello di politiche sulla salute, che lega l’Italia agli Stati Uniti e che viene ricordato anche nell’ultimo libro Una sanità uguale per tutti di Rosy Bindi, già ministra della salute e fondatrice dell’Associazione salute diritto fondamentale. Come Trump è uscito dall’Oms, il governo italiano si è astenuto dal piano pandemico: una scelta politica assai discussa, che ha sollevato numerose critiche da scienziati ed esperti.

Per Bindi queste «sono decisioni non lontane dal modello trumpiano. In democrazia tutto si tiene: la piazza, il voto, i pesi e i contrappesi al potere. Ma bisogna rimuovere gli ostacoli per l’accesso ai diritti sociali e alle libertà». Proprio sui tempi che stiamo vivendo, la professoressa Urbinati ricorda: «Siamo in un tempo di capitalismo finanziario tecnoindustriale e tecnocratico, che vive e opera ovunque. Trump mette in campo la sua politica in uno stato imperiale, non più collegato amichevolmente con paesi simili. Una politica aggressiva a livello finanziario, militare ed economico».

C’è una concentrazione di capitali finanziari monopolistica e un’Europa debolissima su questo: «Dipendiamo dagli Stati Uniti, c’è uno squilibrio reale e un problema serissimo. O le democrazie sono in grado di organizzarsi e cooperare insieme per fermare i poteri monopolistici o sennò c’è poco da fare. Se vogliamo davvero proteggere le nostre democrazie dovremmo creare una sovranità sovranazionale».

L’incontro si conclude con alcune riflessioni legate alla politica italiana. Francesca De Benedetti chiede a Rosy Bindi se la sinistra stia facendo abbastanza, se possa fare di più. Bindi risponde senza indugi: «Sarò diretta: davanti ad una destra così sfacciata non dovremmo essere così timidi. Bisogna essere riformisti nel metodo, ma non si ottengono risultati in un giorno: indicare la strada e percorrerla con coerenza e gradualmente per dire, agli italiani e agli europei: “La sicurezza non può fare a meno di leggi e polizia ma inizia dalle società giuste che includono e sono sicure. Non c’è sicurezza in società attraversate dalla disuguaglianza come quella che stiamo costruendo”».

Insomma, per Bindi serve un chiarimento interno alla sinistra: «Se alle prossime elezioni vogliamo prospettare agli italiani una scelta, dovremmo avere subito il coraggio di un chiarimento interno. Io la risposta ce l’ho, ma a volte mi sembra di essere una minoranza».

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