In Italia si dice «sul mio corpo decido io», che in Spagna diventa «Yo decido» e in Pakistan si traduce con «Mera Jism Meri Marzi» (letteralmente, «my body, my choice»). Il diritto all’autodeterminazione del corpo non si può comprimere in determinati confini geografici, ma riguarda tutti e tutte e attraversa i continenti collegando persone sparse nel mondo.

Non si tratta però di rivendicazioni recenti. Già nel 1994 al Cairo 179 paesi hanno stabilito che la salute sessuale e riproduttiva femminile era una precondizione fondamentale per garantire alle donne e alle ragazze il raggiungimento della parità di genere. Questi diritti riguardano la scelta o meno di sposarsi e avere figli, di assumere contraccettivi, beneficiare dell’assistenza sanitaria e avere le informazioni necessarie per esercitare le proprie decisioni.

I punti fondamentali affrontati nella conferenza del Cairo sono stati ripresi più volte in questi decenni, fino ad arrivare all’agenda 2030, che prevede di raggiungere entro i prossimi sei anni di uno sviluppo economicamente, socialmente e ambientalmente sostenibile. I diritti sessuali e riproduttivi sono due dei diciassette obiettivi: il terzo, che riguarda la salute, e il quinto, che prevede il raggiungimento della parità di genere.

Negli ultimi trent’anni si sono fatti molti progressi in diverse parti del mondo sia sul fronte della maternità che su quello della contraccezione. Come sottolinea il nuovo rapporto sullo stato della popolazione mondiale 2024 lanciato dal Fondo delle Nazioni unite per la popolazione (Unfpa) e dall’Associazione italiana donne per lo sviluppo (Aidos), tra il 2000 e il 2020 le madri che muoiono di parto sono diminuite del 34 per cento.

Dal 1990 al 2021, il numero di donne che utilizza metodi di contraccezione moderna è raddoppiato e più di sessanta paesi hanno migliorato l’accesso all’aborto sicuro. Inoltre, negli ultimi dieci anni le adolescenti sottoposte a mutilazioni genitali femminili sono scese del sette per cento, anche se, secondo il parlamento europeo, questa pratica potrebbe riguardare 68 milioni di ragazze prima del 2030.

Ma, come anticipa lo stesso titolo del report Interwoven Lives, Threads of Hope: Ending inequalities in sexual and reproductive health and rights, «quel progresso non è stato abbastanza veloce, né abbastanza ampio». Non tutte le donne, infatti, possono decidere autonomamente del proprio corpo.

A livello mondiale, un quarto non può dire no ai rapporti sessuali con il marito o il partner e una su dieci non ha la possibilità di scegliere se usare o meno metodi contraccettivi. E, anche se la mortalità per parto è diminuita notevolmente, dal 2016 al 2020 la tendenza si è fermata e ancora oggi partorire causa la morte di ottocento donne ogni giorno. Ma sono decessi che si potrebbero prevenire.

Come dice il dottor Mahmoud Fathalla, ex direttore del United Nations Special Programme on Human Reproduction citato nel report, «le madri non muoiono a causa di malattie che non possiamo curare. Stanno morendo perché le società devono ancora prendere la decisione che vale la pena salvare le loro vite».

Le disuguaglianze

Come è noto, le donne non hanno gli stessi diritti in tutti i paesi a causa di fattori culturali, religiosi, storici, economici, politici e sociali. La differenza tra vivere e morire spesso dipende da dove la donna partorisce.

Oltre il 70 per cento delle morti si verifica nell’Africa subsahariana. In questa regione una madre che affronta complicazioni durante il parto ha circa 130 volte in più la probabilità di morire rispetto a una donna europea o nordamericana.

Ma anche all’interno dello stesso stato si evidenziano differenze sulla base dello status socioeconomico e dell’etnia. In Madagascar, le donne benestanti hanno cinque volte in più la probabilità di ricevere assistenza qualificata durante il parto rispetto a quelle che appartengono a classi sociali più basse.

Un discorso simile vale per l’Albania, dove solo il cinque per cento delle donne privilegiate dal punto di vista socioeconomico (generalmente le donne albanesi) ha avuto difficoltà nell’accesso all’assistenza sanitaria, rispetto al 91 per cento delle donne meno privilegiate (generalmente di origine rom). E i miglioramenti si muovono con ritmi differenti: la situazione delle donne agiate migliora a una velocità maggiore rispetto a quella di chi appartiene a una classe sociale inferiore.

Non è necessario andare dall’altra parte del mondo per vedere queste situazioni. Nel Regno Unito, ad esempio, l’incidenza della mortalità materna «è estremamente più alta per le donne nere rispetto a quelle bianche», così come anche negli Stati Uniti, dove la mortalità per le donne nere è tre volte superiore alla media nazionale.

Inoltre, la situazione è particolarmente difficile per le persone con disabilità che «affrontano fino a dieci volte in più la violenza di genere e incontrano ostacoli maggiori circa l’informazione e la cura sessuale e riproduttiva». Un discorso simile riguarda le persone lgbtqia+, che «affrontano gravi disparità sanitarie oltre a – e come risultato di – discriminazione e stigmatizzazione».

Emergenze umanitarie

Nei paesi in cui sono in corso conflitti e conseguenti emergenze umanitarie la situazione peggiora ulteriormente. In Yemen, ad esempio, oltre il 65 per cento delle ragazze si sposa prima dei 18 anni mentre nel periodo antecedente l’inizio del conflitto il dato era pari al 50 per cento. Inoltre, anche la violenza sulle donne aumenta in questi casi. Ma, nonostante ciò, secondo i dati del Financial tracking service la comunità internazionale ha stanziato appena il venti per cento dei fondi necessari per affrontarla.

Come scrive la giornalista Caroline Criado Perez nel suo libro Invisibili (2020), «nei tre anni di guerra in Bosnia circa 60mila donne hanno subito violenza sessuale, e nei cento giorni del genocidio in Ruanda ci sono stati 250mila stupri. Secondo l’Onu, più di 60mila donne sono state stuprate durante la guerra civile in Sierra Leone; più di 40mila in Liberia e almeno 200mila nella Repubblica democratica del Congo, dal 1998 a oggi».

Rispetto agli uomini, le donne sono svantaggiate anche nei campi profughi o nei bunker. Spesso questi luoghi non prevedono spazi distinti o hanno i servizi igienici situati in una posizione isolata e poco illuminata, fattore che aumenta la probabilità di eventuali aggressioni. «In Ciad – si legge nel report – molte donne e ragazze sfollate sono state lasciate a vivere in un campo sovraffollato con una protezione insufficiente dalla violenza. E in Afghanistan, circa 170 strutture sanitarie hanno dovuto interrompere la loro attività, limitando l’assistenza sanitaria primaria per un milione di persone, tra cui donne incinte, bambini e persone con disabilità».

Costi e vantaggi

Secondo i calcoli di Unfpa, investire 79 miliardi di dollari in più nei paesi a basso e medio reddito entro il 2030, eviterebbe 400 milioni di gravidanze non pianificate, salverebbe un milione di vite e genererebbe 660 miliardi di dollari. A beneficiarne, quindi, sarebbe il tenore di vita non solo delle donne, ma di tutta la società. Anche le disuguaglianze hanno un costo e i benefici nel combatterle – sebbene comportino uno sforzo e una spesa iniziale – sarebbero decisamente superiori.

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