Prima le denunce di molestie all’università di Torino, poi i casi alla Sapienza di Roma. Ma esiste uno strato sommerso, più profondo e difficile da individuare, composto da numerosi altri episodi di violenza diffusi in tutto il territorio nazionale. L’11 febbraio la confederazione di associazioni studentesche Unione degli universitari (Udu) ha lanciato l’indagine online “La tua voce conta” per raccogliere testimonianze anonime di violenze e molestie vissute dalle studentesse negli atenei italiani. E in poco più di un mese hanno ricevuto più di 1.500 risposte.

«Sono stata più volte toccata dal mio relatore di tesi durante le correzioni del testo». «Un uomo appartenente al personale dell’università ha allungato le mani sul mio sedere (più di una volta)». «Un ragazzo della ditta di pulizie ha molestato fisicamente una conoscente, chiudendola in una stanza isolata e tentando di immobilizzarla e palpeggiarla». Tre denunce, tre vittime diverse, in comune il fatto di essere avvenute tra le mura delle università.

«Dalla nostra indagine è emerso un quadro preoccupante ma che purtroppo ci aspettavamo», dice Camilla Piredda, coordinatrice nazionale di Udu. «Non si tratta di casi isolati, ma di una problematica diffusa in tutto il paese che ci dà un’immagine chiara: esattamente come ogni spazio, anche i luoghi del sapere non sono immuni dalla cultura di matrice patriarcale che invade le nostre vite».

L’indagine

ANSA
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Il questionario, oltre ad accogliere segnalazioni di violenze, ha indagato la percezione di sicurezza o insicurezza all’interno dell’ateneo, la conoscenza dei centri antiviolenza (cav) del territorio e delle iniziative universitarie a tutela delle vittime.

Secondo i risultati emersi dall’indagine, il 20,5 per cento dei rispondenti pensa che le università italiane non siano luoghi sicuri. Il 34,5 per cento del campione, infatti, dice di aver sentito parlare di casi di molestie o violenze negli spazi universitari. I docenti sono stati individuati come i «più inclini a perpetuare molestie e violenze», seguiti dai compagni di corso, quelli di studentato e, infine, dal personale tecnico e amministrativo.

Le segnalazioni hanno in comune la sensazione che spesso gli atenei abbiano sottovalutato o ignorato le segnalazioni: «Varie ragazze hanno denunciato diverse molestie avvenute all’interno dello spazio universitario perpetrate da professori, sia verbali sia fisiche che, nonostante siano state fatte arrivare in consiglio accademico sono state ignorate [...] umiliando le vittime e chiedendo a queste ultime di presenziare da sole con il carnefice e il direttore per poterne discutere, mettendo anche in una posizione scomoda e di disagio la vittima».

Qualcuna ha raccontato anche casi avvenuti in passato, a dimostrazione del fatto che questi episodi sono in atto da decenni. «Le mie risposte si riferiscono agli anni 1986-88, quando io frequentavo il reparto di medicina come tirocinante per compilare la tesi. L’allora aiuto del primario mi faceva pressioni per ottenere prestazioni sessuali. Tutto l’ambiente, conoscendo il personaggio, era sicuro che io mi fossi concessa solo perché vedevano il suo interesse. Una volta laureata, decisi di uscire dalla clinica, non fare domanda di specializzazione, non avrei retto altri quattro anni di stress, e se non l’avessi accontentato non mi avrebbe permesso di imparare nulla. Scelsi di sacrificare i miei ideali. Cambiai strada. Senza dire nulla a nessuno! Non erano i tempi del Me too».

Per le vittime non è mai facile denunciare. E il ruolo di subalternità in cui si trovano rispetto alla persona violenta è una delle motivazioni principali che condiziona questa scelta. «Inutile dire che non sono mai stata in grado di reagire, era il professore coordinatore del corso da cui dipendeva la mia laurea». O ancora, «purtroppo nessuna ragazza è disposta a parlare per paura di ritorsioni visto che è un docente molto affermato in ambito accademico».

Cosa fa l’università

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In molte università negli ultimi anni sono stati aperti sportelli antiviolenza gestiti, in alcuni casi, da cav esterni e personale indipendente dall’istituzione scolastica. Uno dei problemi però risiede nel fatto che molte studentesse – il 62,1 per cento delle persone che ha risposto al questionario – ancora non sanno dell’esistenza di queste realtà, nonostante in molti atenei si stia cercando di diffondere la notizia con campagne social mirate, e-mail, eventi e volantini.

Gli sportelli, oltre a svolgere un lavoro fondamentale di sostegno e accompagnamento, fanno percepire l’ambiente come più sicuro. Infatti, su una scala da zero (per niente sicuro) a dieci (estremamente sicuro) la media di risposta tra chi dichiara l’assenza di presidi antiviolenza è pari a 5,6 mentre sale a 7,2 tra chi dichiara l’esistenza di cav di ateneo. Inoltre, grazie agli spazi antiviolenza, le persone sostengono di sentirsi più tranquille di raccontare episodi di molestie: dove i presidi sono presenti la sicurezza a denunciare raggiunge il 45,4 per cento, mentre dove non ci sono cala al 19,1 per cento.

Gli obiettivi

Udu ha individuato tre obiettivi da raggiungere in ogni ateneo: l’istituzione obbligatoria della consigliera di garanzia (una figura super partes a sostegno della comunità accademica in materia di discriminazione e molestie), la creazione di presidi antiviolenza che garantiscano supporto psicologico e giuridico connessi ai cav del territorio e totalmente indipendenti dall’ateneo e, infine, l’introduzione di percorsi di prevenzione, sensibilizzazione e formazione sessuoaffettiva obbligatori per la componente studentesca e il personale. Secondo Camilla Piredda, «solo lavorando sul contrasto e la prevenzione dei casi di molestie e violenze gli atenei italiani potranno ritenersi spazi realmente sicuri per tutte le soggettività che li vivono».

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