È stato il caso della famiglia che vive nel bosco di Palmoli a portare al centro del dibattito pubblico, negli ultimi giorni, l’istruzione parentale e il suo funzionamento. Ma l’homeschooling, cioè la possibilità che i genitori provvedano direttamente all’educazione dei figli senza iscriverli a scuola, non è una novità per il nostro Paese, anzi.

C’è l’articolo 30 della Costituzione a stabilire che l’istruzione dei figli è responsabilità dei genitori, che, quindi, possono scegliere, se mandarli a scuola o educarli a casa, a condizione che alcuni principi fondamentali vengano rispettati. Tra questi, come si capisce leggendo gli articoli 111 e 112 del decreto legislativo n° 297 – il primo, nel 1994, a definire in maniera organica la disciplina che norma l’istruzione parentale – ci sono il fatto che i genitori dimostrino di avere le possibilità tecniche ed economiche necessarie per provvedere all’educazione dei minori fuori dall’istituzioni scolastiche e che, annualmente, comunichino alla scuola di riferimento sul territorio il percorso d’apprendimento scelto per i figli. Il dirigente scolastico ha il dovere di verificare la fondatezza di quanto dichiarato dai genitori, mentre anche al Comune di residenza spetta il compito di vigilare sul rispetto dell’obbligo scolastico, in Italia dai 6 ai 16 anni.

Così, secondo quanto ha stabilito il successivo decreto legislativo n° 62 del 2017, a certificare il livello d’apprendimento dei minori non possono essere gli stessi genitori che fanno lezione. Deve essere la scuola, statale o paritaria, presso cui ogni anno gli studenti che imparano da casa devono svolgere un esame d’idoneità volto ad attestare che abbiano raggiunto gli obiettivi di competenza, apprendimento e contenuto per ogni disciplina, stabiliti dalle Indicazioni nazionali per la classe di riferimento.

Le regole da rispettare

Le procedure che normano l’homeschooling, come l’organizzazione degli esami o il fatto che la verifica degli apprendimenti sia effettuata da una commissione di docenti convocata dal dirigente scolastico, ma anche i criteri per valutare le capacità dei genitori, negli anni hanno subito un processo di affinamento culminato nella nota ministeriale n° 253 del 2021 che ribadisce anche come le Indicazioni nazionali siano l’orizzonte di riferimento per tutte le forme di apprendimento da casa che il termine ampio “istruzione parentale” racchiude.

«Sono parecchie», spiega l’ex dirigente scolastica, oggi in pensione, che fa parte dello staff dell’Anp, Associazione nazionale presidi, Grazia Fassorra: «Ci sono metodologie diverse d’apprendimento che i genitori seguono. La cosa che lo Stato chiede è che ogni anno il bambino faccia l’esame di idoneità. Cioè che raggiunga gli obiettivi comuni stabiliti dalle indicazioni nazionali».

Principio, appunto, che vale anche per l’unschooling, letteralmente “non scuola”, la forma di educazione parentale perseguita dalla famiglia che ha cresciuto i figli nel bosco, che ha preso forma dal pensiero di John Caldwell Holt, negli Usa degli anni ’70, secondo cui non esiste una programma prestabilito che gli studenti devono seguire per imparare, perché sarebbero gli interessi e la curiosità a guidare l’apprendimento, senza necessità di lezioni formali o verifiche.

Nel caso dei tre bambini abruzzesi al ministero dell’Istruzione «risulta regolarmente espletato l'obbligo scolastico attraverso l'educazione domiciliare legittimata dalla Costituzione e dalle leggi vigenti e tramite l'appoggio ad una scuola autorizzata. La conferma è arrivata dal dirigente scolastico dell'istituto scolastico di riferimento per il tramite dell'ufficio scolastico regionale», si legge in una nota del Mim.

Quindicimila ragazzi e ragazze

Per Fassorra il fatto che, come mostrano anche i dati, il numero di studenti che scelgono l’istruzione parentale stia crescendo negli anni (da 5.126 nel 2018-19 a 15.361 nel 2020-21, secondo una rielaborazione dei dati del Mim di Adnkronos, unica fonte a disposizione) è dovuto al concatenarsi di più fattori: «La pandemia, sicuramente, ha spinto diversi genitori a tenere i propri figli a casa. Poi ci sono le situazioni di deprivazione economico-sociale, cioè quelle famiglie che non possono permettersi di mandare i figli a scuola. Ma cresce anche il numero di chi lo fa per sfiducia nei confronti del sistema di istruzione pubblico, chi crede che questo privi i ragazzi del necessario contatto con la natura, ad esempio. E, infine, a prediligere l’apprendimento in famiglia ci sono anche quei bambini che non riescono ad andare a scuola perché hanno paura», spiega l’ex preside, convinta che per un minore entrare in classe e frequentare i compagni sia un momento di crescita fondamentale: «È il primo luogo in cui si struttura la socialità, si imparano le regole del vivere comune, ci si misura con gli altri. Quindi, se non parliamo di casi particolari, eviterei di tenere i bambini in casa. Questa però è una mia opinione personale, in Italia l’homeschooling è una possibilità prevista dalla legge, quindi se una famiglia sceglie questa forma di educazione può farlo, è un diritto».

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