Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.


Neanche un mese dopo, il 16 marzo, rapiscono il presidente della Dc Aldo Moro.

È un altro momento decisivo per l’Italia. I comunisti stanno per entrare nella maggioranza di governo, Moro è l’artefice della svolta politica, qualcuno vuole fermare il cambiamento con il più simbolico dei messaggi. Cinquantacinque giorni di dramma e di sospetti e poi il presidente è ritrovato cadavere nel bagagliaio di una Renault, nel centro di Roma, quasi a metà strada fra le sedi del Pci e della Dc. Sono le Brigate Rosse che ritornano.

Torna anche Carlo Alberto dalla Chiesa. A fine della primavera del 1978 viene ricostituito il suo Nucleo Speciale Antiterrorismo. L’incarico gli arriva da Giulio Andreotti.

Ha carta bianca. Deve rispondere solo al capo del governo e al ministro degli Interni Virginio Rognoni. Sceglie 150 uomini, i migliori.

Si rivolge a loro così: Da oggi nessuno di voi ha più un nome, una famiglia, una casa. Da adesso dovete considerarvi in clandestinità. Io sono il vostro unico punto di riferimento. Io vi darò una casa, io vi ordinerò dove andare e cosa fare. Il Paese è terrorizzato dai brigatisti. Da oggi saranno loro che devono cominciare ad avere paura di noi e dello Stato.

Sono invisibili. Si spostano su auto con targhe false, affittano appartamenti sotto falsa identità, lavorano in società con nomi falsi. Nasce il mito degli «uomini di dalla Chiesa». Colpiscono all’improvviso, irrompono nei covi brigatisti, arrestano, interrogano, strappano confessioni. C’è una parte dell’Italia che applaude e un’altra parte che grida contro l’«attentato alla Costituzione». La sfida di Carlo Alberto dalla Chiesa al terrorismo è all’ultimo sangue.

Serve lo Stato ma sono in molti a ritenerlo fuori dalle regole dello Stato. Gli chiedono un intervento «straordinario» per salvare le istituzioni ma poi gli danno del fascista. Il temperamento non lo aiuta. Al contrario alimenta diffidenze, invidie, risentimenti. Nell’Arma, nonostante migliaia di carabinieri lo considerino un «eroe», è tenuto alla larga quasi fosse un corpo estraneo. Diffidano di lui e delle sue milizie «private».

Lo Stato lo usa e lo scarica. Lo richiama un’altra volta e poi se ne sbarazza. E non è ancora finita.

Dopo il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, continua la «guerra».

Uccidono altri giudici, giornalisti, poliziotti, sindacalisti, operai che denunciano i terroristi in fabbrica.

I carabinieri di dalla Chiesa smembrano le «colonne» delle Br una per una. Arrestano Patrizio Peci – che poi si pentirà – e irrompono in via Fracchia, a Genova, dove trovano un deposito di armi e documenti. Nello scontro a fuoco, muoiono quattro brigatisti. Vittorie su vittorie che però si trascinano dietro sempre misteri, dubbi su quelli che ormai vengono riconosciuti come «eccessi».

Il generale è travolto da un ciclone.

A Genova scopre una trentina di fiancheggiatori – fra loro c’è anche un famoso docente di Lettere Antiche – ma la magistratura smonta la sua indagine. Il generale fa scalpore al 166° Anniversario dell’Arma con un discorso sull’«ingiustizia che assolve».

Non lo difende lo Stato che lo manda a combattere. E lo attaccano dall’altra parte. Lui è in mezzo, fedele alle istituzioni di un’Italia felpata, prudente, volubile.

Dentro si sente ancora il giovane capitano sceso in Sicilia trent’anni prima a combattere i mafiosi di Corleone. Con lo stesso sentimento, lo stesso ardore di quando dava la caccia agli assassini di Placido Rizzotto.

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