Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.


È soprattutto un’operazione speciale nei covi brigatisti a segnare la storia degli anni del terrorismo e forse la stessa sorte di Carlo Alberto dalla Chiesa. È la scoperta di un nascondiglio, quello di via Monte Nevoso, a Milano.

Aldo Moro è stato ucciso da sei mesi quando un capitano dell’Antiterrorismo viene a sapere che il brigatista Lauro Azzolini è rifugiato lì, in via Monte Nevoso. Il 1° ottobre del 1978 i carabinieri lo fermano, nel covo c’è anche la nuova compagna di Curcio, Nadia Mantovani. Nell’appartamento trovano le lettere di Aldo Moro scritte durante la prigionia brigatista.

È il «memoriale» del presidente della Dc rapito dalle Br. Il generale consegna le carte al capo del governo, Giulio Andreotti, dal quale dipende direttamente per decreto. Tutte? Le consegna tutte?

È questo il sospetto che comincia a circolare in Italia: dalla Chiesa ha tenuto per sé alcune lettere, come arma di ricatto contro Andreotti e altri uomini politici italiani.

Allusioni che si rincorrono per anni, che raccontano di un dalla Chiesa intento a trafficare con i dossier, custodire segreti per uso estorsivo, a minacciare il tempio del potere italiano con le carte di Moro.

Qualcuno – il giornalista Mino Pecorelli – dice anche che i «memoriali» sono più di uno e che la vita del generale è in pericolo. Ma è Pecorelli che nel marzo 1979 muore ammazzato.

Che cosa è realmente avvenuto in via Monte Nevoso? Chi spande veleni intorno al cadavere di Aldo Moro?

Carlo Alberto dalla Chiesa, probabilmente, è a conoscenza di retroscena indicibili sul «caso Moro». I misteri del covo di via Monte Nevoso serviranno a qualcuno come movente o come alibi per liberarsi in futuro del generale.

Nel 1980 è a Milano, comandante della Divisione Pastrengo.

Gli «anni di piombo» stanno per finire. I brigatisti sono isolati nel Paese, la repressione è durissima, il generale ha quasi concluso il suo compito.

È sempre a Milano quando, all’inizio dell’anno successivo, i magistrati Gherardo Colombo e Giuliano Turone ordinano una perquisizione a Castiglion Fibocchi, a Villa Wanda, nella residenza di Licio Gelli.

Trovano gli elenchi della loggia P2.

Nella lista il nome di Carlo Alberto dalla Chiesa non c’è. C’è invece la sua domanda d’iscrizione che è rimasta lì, in «sospeso».

Dopo aver ceduto agli inviti di Franco Picchiotti, il suo ex vicecomandante, dalla Chiesa qualche mese dopo ha chiesto di non voler più entrare nella loggia. Ma la notizia del suo coinvolgimento nella P2 filtra subito, anche se non è nell’elenco, confuso con tutti gli altri.

Il generale è disperato. Lui in mezzo a quella teppa. Golpisti. Ladri di Stato. Amici dei mafiosi. È fuori di sé, si vergogna.

Convocato come testimone dai giudici milanesi racconta dell’incontro con Picchiotti del 1976, della sua curiosità verso quella loggia fin dai primi anni dell’Antiterrorismo – quando ha incrociato alcuni «neri» in contatto con la P2 –, del suo pentimento per essersi piegato alle pressioni dell’ex vicecomandante. Tutti i documenti sulla P2 vengono pubblicati il 7 maggio 1981.

Lo scandalo è enorme. Ricominciano gli attacchi contro dalla Chiesa anche se lui nella lista non compare.

I più duri arrivano ancora una volta dall’interno dell’Arma.

È il Comandante Generale, Umberto Cappuzzo, uno di quelli che non l’ha mai sopportato, a invitarlo «a farsi da parte».

Il governo fa quadrato intorno al generale. Alcuni uomini politici lo stimano, uno di loro è Bettino Craxi. Ma i suoi superiori si accaniscono, cercano di convincere il ministro della Difesa Lelio Lagorio e quello dell’Interno Virginio Rognoni. Vogliono cacciarlo dall’Arma. Non ci riescono. Alla fine del 1981 ne diventa vicecomandante. Come suo padre Romano nel 1955

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