Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.


Quel pomeriggio, sicuramente uno dei più felici della nostra vita, tornò a casa papà. Francesca e io, sempre impazienti, aspettammo come consuetudine non so quante ore al balcone per vederlo arrivare, e così successe! Impossibile descrivere la gioia nel vederlo scendere dal taxi che lo accompagnò a casa. Quando aprimmo la porta e ce lo ritrovammo davanti, libero, senza guardie accanto, fu davvero strano. Un rientro diverso da tutti gli altri.

La casa, senza la presenza della nonna e nonostante le visite giornaliere di Cettina, era diventata buia e vuota. Credo che, malgrado la gioia sua, mia e di mia sorella nel poterci riabbracciare senza barriere, quel vuoto fosse percepibile in ogni angolo della casa. Infine, dopo un paio di ore passate tra lacrime di gioia, coccole, grandi respiri di lui, quasi volesse liberarsi non solo dell’aria, e noi che sorridevamo al mondo, papà ci disse di prepararci perché dovevamo uscire. Ubbidimmo in silenzio.

Chiamò un taxi e salimmo tutti e tre, procedendo in una direzione a noi figlie ignota. Continuammo a non domandare. Incredibile come certe forme mentali diventino parte di te. Saper scegliere il silenzio, questo forse è il diktat più forte che abbiamo assorbito nella nostra famiglia, che del resto rispecchiava in pieno il modo di agire delle poche persone che frequentammo durante la latitanza e il carcere di nostro padre.

Giunti in via Torino, dove all’epoca c’era una delle più grandi concessionarie di moto, la famosa Toti Motor, io e mia sorella cominciammo a sorridere con gli occhi, non sapevamo cosa facessimo lì ma conoscendo il nostro «re» potevamo solo immaginarlo. Papà chiese al taxi di fermarsi e attendere. Noi entrammo in quella grandissima rivendita di moto. Il tempo di varcare l’ingresso e subito ci raggiunse il proprietario, che con un abbraccio affettuoso salutò mio padre. Lui, dopo averci presentato con il solito orgoglio, ci guardò e ci disse: «Scegliete i due motorini che vi piacciono di più!».

Francesca e io non riuscivamo a frenare la gioia e il proprietario, al quale era stato raccomandato di darci i motorini migliori e più sicuri di tutta la concessionaria, ci indicò gli ultimi arrivi fiammanti ancora incellofanati, due Piaggio Zip Fast Rider bellissimi, uno accanto all’altro. Quello rosso fu la mia scelta, quello nero e viola la scelta di mia sorella.

Poi ci fermammo pochi minuti in viale Vittorio Veneto, a circa un paio di chilometri da casa, dove c’era da sempre il punto di ritrovo di tutta la nostra famiglia e dove il nonno era solito andare ogni mattina e pomeriggio a passare del tempo con i suoi amici. Se non ricordo male, quella sera ordinammo una pizza a domicilio e mangiammo a tavola io, mia sorella, nonno e papà.

[...] I lunghi anni di galera ci avevano privato della naturalezza, della banalità dei gesti, dell’abitudine ai luoghi comuni che si vivono in famiglia. Per certi versi, eravamo perfetti estranei e a volte anche in soggezione. Finita la cena, mio nonno andò a dormire in camera sua, noi andammo a dormire insieme nel lettone: papà un gigante, al centro, mia sorella e io ai lati abbracciate a lui. Oggi, ripensando a quei momenti di gioia e felicità, l’amarezza si insinua nel mio animo.

Rivedo il lenzuolo che mio padre portò fino alla bocca nonostante le temperature non lo richiedessero, il dormire fermo immobile come se fosse privo di vita. Con i miei quattordici anni guardavo stranita quei comportamenti, oggi a quarant’anni li ricordo con somma tristezza e tanta consapevolezza. Pensando ai duri regimi carcerari sento un’immensa angoscia che mi ferma a tratti il respiro, e mi chiedo chissà quante volte il mio gigante buono ha patito il freddo e la paura durante le sere dei lunghi undici anni passati lì dentro.

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