Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania. Nel 2003 la Cassazione condanna il boss Nitto Santapaola all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Mentre Aldo Ercolano e Maurizio Avola (reo confesso) sono stati condannati come i killer dell’omicidio.

Per quanto riguarda il profilo della attendibilità intrinseca della propalazione di Avola osserva, innanzi tutto, la Corte che l’autonomia del dictum di Avola rispetto alle dichiarazioni degli altri collaboranti non può essere minimamente posta in discussione, poiché egli, pur conoscendo espressamente la dichiarazione di Grancagnolo fatta al pm il 20.3.1993 riportata in seno alla ordinanza di custodia cautelare notificatagli in carcere il 17.12.1993 per il reato associativo e peraltro integralmente depositata presso il Tribunale della Libertà di Catania adito da Avola in sede di riesame della misura restrittiva, ha fatto un racconto che, per la gran parte, è assolutamente originale, mentre con riferimento al segmento fattuale rappresentato da Grancagnolo (e cioè l’incontro al Motel Agip e la partenza dei killers) Avola si è posto in un contrasto dirompente con quanto era stato riferito da Grancagnolo, ribadito vibratamente in sede di confronto effettuato il 7.12.1994 a Torino con toni financo irridenti nei confronti di Grancagnolo per come si vedrà dettagliatamente in seguito.

Non c’è alcun dubbio che, se Avola avesse voluto adeguarsi al dictum di Grancagnolo, avrebbe cercato di coniugare il suo racconto con quello di Grancagnolo, anziché sconfessarlo apertamente ed in maniera assolutamente insanabile, finendo per infliggere (anche per via della esclusione della partecipazione di Cortese) una vera e propria picconata all’impianto accusatorio in quello che è l’omicidio più eclatante ricollegato alla famiglia catanese di cosa nostra.

E trattasi di rilievo che è bene memorizzare allorché si discetta della credibilità soggettiva del collaborante Avola, per sgombrare il campo dalla insinuazione, costantemente ribadita dalle difese, per cui egli non avrebbe fatto altro che adeguarsi alle dichiarazioni degli altri collaboranti e secondare le tesi accusatorie.

Per quanto riguarda il profilo della autonomia del dictum di Avola rispetto alla stampa, osserva la Corte come lo stesso Avola abbia ammesso senza riserva alcuna di avere letto il giornale “La Sicilia” del 6.1.1984 (il quale riferiva, oltre che della pioggia che la sera dell’omicidio cadeva su Catania, anche i dati di cronaca relativi all’omicidio avvenuto la sera precedente, ivi comprese le notizie sul killer solitario e sulla pistola cal. 7,65 munita di silenziatore, con la quale erano stati esplosi dal lato sinistro della Renault 5, attraverso il vetro frantumato dello sportello, i cinque colpi che avevano attinto Fava, il quale aveva appena spento il motore e si accingeva a scendere dalla macchina), pur negando espressamente di avere ivi appreso il particolare del silenziatore della pistola cal. 7,65, ma non c’è dubbio che il racconto fatto da Avola è così analitico, preciso, specifico e dettagliato sull’antefatto, sulla fase esecutiva in senso stretto e sul post factum che non può, nella sua interezza, essere fondato esclusivamente sulla lettura di quanto pubblicato sulla stampa: è certamente impossibile che Avola abbia potuto apprendere dal giornale quanto egli ha riferito sui tentativi fatti in precedenza alla Villetta di S. Agata Li Battiati ed al ristorante sito sul lungomare di Catania, sull’appostamento effettuato davanti alla sede de “I Siciliani” in attesa della uscita di Fava, sul fatto che l’auto del Fava aveva quella sera uno degli stop posteriori non funzionanti; sul passaggio dalla salumeria della zia Piera, sul parcheggio della Renault 18 in via dei Cosmi, sul brindisi fatto in casa di Licciardello dove trovavasi Francesco Mangion e sulla espressione da quest’ultimo profferita per cui con la uccisione di Fava si erano presi due piccioni con una fava e quant’altro è stato dal collaborante riferito con dovizia di particolari assolutamente inediti.

Sarà esaminato in seguito il profilo relativo alla genuinità del riferimento fatto dal collaborante alla intervista rilasciata da Fava a Biagi ed alla notizia che di tale intervista venne riportata sul giornale “La Sicilia” del 18.12.1994.

Venendo poi all’esame delle censure specifiche che dalle difese degli imputati sono state avanzate in ordine alla attendibilità intrinseca della dichiarazione di Avola si osserva quanto segue.

La rapida carriera criminale di Avola

È stato innanzi tutto rilevato da più parti che, al momento dell’omicidio di Fava, Avola era un ragazzo di 22 anni, il quale era stato scarcerato nell’estate del 1983 da appena quattro mesi; che in carcere egli era stato oggetto financo di violenza fisica da parte di altri detenuti più anziani (a riprova del fatto che Avola in quel momento non aveva alcun peso specifico nell’ambito della famiglia catanese di cosa nostra e più in genere della criminalità catanese), che poi in seguito per vendetta sarebbero stati uccisi; che la nomina di Avola ad uomo di onore della famiglia catanese, pur a volere dare seguito alla dichiarazione dello stesso Avola del 13.5.1996, era recentissima, risalendo alla fine del 1983 inizio del 1984 e comunque prima dell’omicidio di Fava (anche se poi, stranamente, all’udienza del 27.10.1999 dinanzi al Tribunale di Catania nel processo Ercolano Aldo +4 il collaborante non indicherà tale evento nel novero di quelli importanti che nella sua vita si erano verificati a fine del 1983 inizio del 1984 e pur a volere prescindere dalla indicazione fatta da Natale Di Raimondo, per cui Avola sarebbe divenuto uomo di onore solo nel 1987, indicazione quest’ultima che forse era strettamente dipendente dal fatto che Di Raimondo era stato nominato uomo d’onore nel 1987 e solo allora aveva avuto notizia ufficiale della composizione della famiglia; che tutto ciò era scarsamente compatibile con il fatto riferito da Avola di essere stato egli cooptato nella esecuzione dell’omicidio più eclatante commesso dalla famiglia catanese di cosa nostra, che peraltro era rimasto riservatissimo anche a livello informativo, costituendo patrimonio conoscitivo di pochissimi soggetti (che, per detta dello stesso Avola, non eccedevano il numero corrispondente alle dita di una mano).

Ora tutto ciò, seppure corrisponde a verità, non può essere di per se stesso indice di una aprioristica inattendibilità intrinseca della dichiarazione di Avola, perché nulla di strano vi è nel fatto che Avola, le cui doti di killer efferato e spietato evidentemente erano già emerse tanto prepotentemente nell’ambito della famiglia (in occasione della sua partecipazione all’omicidio di Andrea Finocchiaro commesso tre mesi circa prima dell’omicidio di Fava) da consentirgli di fare poi una carriera criminale rapidissima, possa essere stato, non appena nominato uomo di onore, cooptato nella esecuzione del delitto in esame da D’Agata Marcello, che era personaggio di assoluto rilievo in seno alla consorteria e che (nel dictum di Avola) aveva curato la organizzazione dell’omicidio: egli certamente conosceva bene Avola, il quale (anche se a quel tempo non erano stati ancora costituiti i vari gruppi territoriali in cui si venne poi ad articolare sul territorio la organizzazione della famiglia catanese di cosa nostra) gravitava indubitabilmente intorno al Motel Agip, di cui era gestore D’Agata stesso, il quale, da autentico scopritore di talenti emergenti, aveva intravisto in Avola le doti di killer superiori alla media ed il notevole spessore criminale dello stesso, il che lo aveva convinto ad avvalersi dell’opera del giovane talento per la esecuzione dell’omicidio di Fava, essendo stato deciso in sostanza nell’ambito della strategia organizzativa dell’omicidio di operare una giusta miscellanea tra l’esperienza (assicurata dalla presenza di D’Agata e di Enzo Santapaola) e la efficienza, assicurata dalla presenza di Avola e di Ercolano, altro giovane elemento destinato ad un cursus velocissimo.

Le prime informazioni raccolte su Fava

[…] Si è discusso molto tra le parti in ordine alla circostanza riferita da Avola, per cui D’Agata ed Ercolano avevano acquisito le prime informazioni sul conto di Fava (e cioè sul luogo di residenza anagrafica e sui movimenti dello stesso) a mezzo di un certo Claudio Balsamo, che il collaborante aveva indicato come un soggetto romagnolo più alto di Avola e con i capelli lunghi e brizzolati, amico di D’Agata e cognato del titolare del negozio di arredamento per bagni denominato Belford (rectius: Elford) sito in via Asiago; che abitava prima ad Ognina vicino il ristorante Costa Azzurra e poi in via Mollica di Cannizzaro vicino al ristorante Selene; che aveva fatto da basista per una rapina commessa a Bologna, cui aveva partecipato lo stesso Avola; che aveva avuto un ruolo nella estorsione subita dal cognato e che una volta aveva incontrato il Fava in Tribunale e lo aveva indicato a D’Agata.

Ora in tema va detto che, nel corso delle indagini, gli inquirenti mostrarono alla moglie di Fava (Corridore Elena) un album contenente le fotografie di vari soggetti aventi per cognome Balsamo e venne individuato in un primo tempo dalla Corridore un certo Stefano Balsamo, che frequentava il Club della Stampa ed una sera aveva aveva accompagnato la moglie di Fava dal Club della Stampa a casa della stessa, sita al Corso Italia n. 213 di Catania, per come dalla stessa Corridore dichiarato al pm l’1.12.1994, ma tale ricognizione in effetti (per come dedotto dalla Pubblica Accusa) è del tutto irrilevante perché lo Stefano Balsamo riconosciuto dalla Corridore non ha nulla a che vedere con il soggetto indicato da Avola, che da parte sua il 7.12.1994 ha espressamente negato che lo Stefano Balsamo fosse la persona cui egli aveva fatto riferimento.

In data 6.5.1995 venne sentito dagli inquirenti Stella Salvatore, titolare del magazzino Elford, e tale dichiarazione consentì di individuare il soggetto indicato da Avola (ed anche da Grancagnolo) come “Claudio Balsamo” in Claudio Bassi. Stella ha ammesso di conoscere Marcello D’Agata; di avere un cognato di nome Claudio Bassi che a sua volta era amico del D’Agata, il quale veniva nel suo negozio e chiedeva lo sconto adducendo di essere amico del Bassi; che egli aveva subito una estorsione preceduta dalla collocazione di un ordigno davanti al suo negozio; di essere stato socio del Club della Stampa dal 1989 grazie alla presentazione del giornalista Filippo Galatà e di Tony Zermo (il che non esclude che lo Stella abbia frequentato il detto Club della Stampa come ospite anche in epoca precedente, dati i rapporti di amicizia che intercorrevano tra lo Stella ed il figlio di Filippo Galatà, socio di detto Club e conoscente di Fava oltre che di Benedetto Santapaola, se è vero che risulta essere stato fotografato assieme a quest’ultimo).

Ciò premesso reputa la Corte che dalle risultanze processuali acquisite non emerga un riscontro pieno al dictum di Avola, ma neppure può dirsi che il racconto di Avola sia stato smentito.

[…] In questa situazione può concludersi solamente che, sulla base della dichiarazione di Avola, non può essere affatto esclusa la circostanza che D’Agata abbia sfruttato la sua conoscenza con il Bassi per ottenere informazioni, sia pure minimali, sul conto del Fava ed avere, in occasione dell’incontro al Tribunale, una certa contezza sull’aspetto fisico del Fava, di poi visto anche al rifornimento Agip del D’Agata, il tutto in funzione dello svolgimento di una attività di controllo dei movimenti del Fava, senza però che sulla eventualità suddetta vi sia stato riscontro oggettivo pieno in atti.

La difesa di D’Agata ha poi osservato che quanto riferito da Avola in ordine alla perlustrazione fatta assieme a D’Agata nei pressi del palazzo sito al Corso Italia 213, dove Fava abitava, sarebbe smentito dal fatto che già nell’ottobre 1983 il giornalista si era separato dalla moglie e viveva altrove assieme ai genitori in via Generale San Marzano (per come è emerso dalle dichiarazioni rese dai testi Mario Giusti, Claudio Fava e Quasimodo Giovanna).

Ora in tema devesi rilevare che la separazione personale dei coniugi Fava-Corridore non era affatto nota alla consorteria, trattandosi di una separazione di fatto risalente peraltro a poco tempo prima e d’altra parte Fava aveva mantenuto ancora al Corso Italia 213 la residenza per così dire formale ed ufficiale (quale si poteva evincere agevolmente per esempio dall’elenco telefonico ovvero dai nominativi segnati sui pulsanti dei citofoni), per cui è perfettamente logico che ivi vennero fatte le perlustrazioni ed è anche provato il fatto che Fava, pur essendosi separato dalla moglie, spesso si recasse lo stesso in Corso Italia 213 per ivi incontrare la moglie (con la quale intratteneva buoni rapporti) ed i figli: se quindi il dato ufficiale si coniugava perfettamente (tenuto conto ovviamente del fatto che gli appostamenti presso l’abitazione del Corso Italia 213 erano saltuari) con la circostanza che il Fava veniva pur sempre notato a volte al Corso Italia 213, non si comprende perché mai Avola ed i suoi amici avrebbero dovuto sospettare che il Fava si fosse separato dalla moglie e di conseguenza dirottare le perlustrazioni nel luogo in cui il Fava si era trasferito (via Generale San Marzano) che verosimilmente era rimasto ignoto alla cosca.

L’intervista rilasciata ad Enzo Biagi

Va esaminato poi il segmento della dichiarazione di Avola relativo alla intervista che Giuseppe Fava aveva rilasciato ad Enzo Biagi il 17.12.1983 negli studi televisivi di Lugano di Retequattro in occasione di un dibattito cui avevano partecipato Nando Dalla Chiesa ed il difensore dei fratelli Greco, intervista andata in onda su detta rete televisiva il 29.12.1983, che da Avola è stata indicata come l’evento che ha costituito la causa ultima dell’omicidio di Giuseppe Fava.

[…] Contrariamente a quanto è stato sostenuto dalla difesa di Aldo Ercolano la intervista de qua non è stata affatto generica e non può dirsi che non conteneva nulla che non avesse potuto turbare gli animi dei soggetti chiamati in causa.

Ed, invece, si era trattata di una intervista che indubbiamente aveva lasciato il segno, poiché Fava aveva trattato duramente il tema della mafia infiltrata nel sistema bancario come strumento di riciclaggio delle ricchezze acquisite illecitamente ovvero penetrata all’interno del Parlamento e della politica, tanto da auspicare sotto questo profilo una rifondazione del sistema politico, con l’avvento di una seconda Repubblica che avesse solo delle leggi ed una struttura democratica, in cui il politico non fosse più succube di se stesso o della ferocia degli altri, ma solo un professionista della politica; nella intervista de qua Fava poi trattò la vicenda sentimentale di Luciano Liggio e Leoluchina Sorisi (di cui si è detto sopra) come emblematica della arroganza di un mafioso come Liggio manifestata anche nell’ambito dei rapporti personali.

L’intervista era stata per certi versi dirompente ed era stata tale da irritare i protagonisti delle consorterie mafiose, e ciò è reso palese da quanto affermato da Fava in chiusura della intervista: “in questo tipo di società la protezione è indispensabile se qualcuno non vuole condurre la vita di lupo solitario, che può anche essere una scelta, può anche essere affascinante per essere soli nella vita e non avere né aderenze né protezioni di alcuna, parte orgogliosamente soli fino all’ultimo”.

La suddetta intervista poi non fu assolutamente la causa scatenate dell’omicidio in quanto essa ha avuto solamente la funzione di accelerare (rendendola assolutamente improcrastinabile) la fase strettamente esecutiva dell’omicidio, che già da tempo era stato concepito, deciso e programmato (sin da quando Benedetto Santapaola era molto arrabbiato e furibondo in casa della Amato a Siracusa a dicembre del 1982 per la lettura della rivista “I Siciliani”, che denunciava all’opinione pubblica l’intreccio mafia politica affari), decisione omicidiaria che era rimasta sempre valida, efficace ed attuale in seno alla consorteria, tanto che tra gli affiliati non si perdeva occasione per boicottare ed insultare Fava; il disprezzo che in seno alla famiglia catanese e palermitana si era diffuso nei confronti di Giuseppe Fava è un dato certo nel processo, avendo di ciò riferito tutti i collaboranti esaminati nel processo (ivi compresi i palermitani Siino e Mutolo) ed Avola in particolare ha detto che Ercolano e D’Agata “già da diverso tempo parlavano della necessità di eliminare il giornalista per i suoi articoli contro la mafia” ed inoltre che D’Agata, ogni qual volta leggeva la rivista “I Siciliani”, diceva che Fava era un “fituso” perché parlava male della mafia e doveva essere eliminato.

La difesa di D’Agata poi ha rilevato che il riferimento di Avola alla intervista de qua non sarebbe affatto genuino ed autonomo, perché Avola non avrebbe riferito un dato che si apparteneva al suo patrimonio conoscitivo genetico, ma si sarebbe solo appropriato di una circostanza che era stata pubblicata nel giornale “La Sicilia” del 18.12.1993, ed esattamente il giorno successivo a quello in cui era stata eseguita la operazione Orsa Maggiore.

[…] Un segmento della narrazione di Avola sul quale è stata misurata la attendibilità intrinseca della dichiarazione del collaborante suddetto è costituito dai tentativi di uccisione del Fava effettuati presso il bar La Villetta di S. Agata Li Battiati e presso il ristorante “Grand Canyon” sito sul lungomare di Catania.

[…] In seno alle dichiarazioni rese al pm il 10 e 16.3.1994 Avola ha collocato chiaramente i due episodi suddetti dopo l’intervista concessa dal Fava ad Enzo Biagi ed andata in onda su Retequattro il 29.12.1983, che avrebbe costituito la causa scatenante dell’omicidio, per come ora detto.

In sede di esame dibattimentale del 28 e 29.11.1996 a seguito del controesame della difesa di D’Agata, che fece constare al collaborante come la suindicata intervista fosse stata trasmessa in televisione il 29.12.1983, Avola dichiarò di ricordare meglio, assumendo che i tentativi in questione si erano verificati prima della intervista suddetta, per poi tornare infine alla versione originaria allorché il PM ebbe a contestargli le dichiarazioni originarie, inducendo così la difesa a rilevare che tra il 29.12.1983 ed il 5.1.1984 vi sarebbe una eccessiva concentrazione di eventi scarsamente credibile.

La pistola silenziata

[…] Un’altra circostanza sulla quale si è discusso a lungo e molto vivacemente tra le parti, con riferimento al tema della attendibilità intrinseca della dichiarazione di Avola, è stata quella relativa all’utilizzo di una pistola silenziata con la quale sarebbe stato consumato l’omicidio, secondo quanto è stato riferito dal collaborante sin dalla dichiarazione resa al pm il 16.3.1994.

Va subito detto che il quotidiano “La Sicilia” del 6.1.1984 riportò subito, riferendo della dinamica dell’agguato fatto la sera precedente a Giuseppe Fava, la notizia che l’assassino solitario aveva sparato con una pistola cal. 7,65 munita di silenziatore (verosimilmente sulla base della constatazione del fatto che le persone compulsate nell’immediato avevano dichiarato di avere sentito poco o nulla).

Avola ha ammesso di avere letto il giornale suddetto, ma di non avere letto invece del silenziatore, il che è dato inverosimile perché del silenziatore suddetto si faceva cenno in seno al vistoso sottotitolo di un articolo a nove colonne, che è versato in atti.

[…] Avola al dibattimento ha precisato che l’opera di silenziamento fu realizzata in tempi molto rapidi e che non era assolutamente certo che la detta opera fosse stata concretamente realizzata da Sgroi ovvero da altra persona cui lo stesso Sgroi si fosse rivolto.

Le risultanze processuali acquisite non consentono di potere affermare che la dichiarazione di Avola in ordine al segmento relativo alla pistola silenziata sia stata riscontrata e confermata dalle stesse, ma le stesse non consentono neppure di potere affermare che il dictum del collaborante sia stato smentito.

Orbene Sgroi Cosimo, esaminato in dibattimento, ha smentito l’assunto di Avola ed i due sono stati posti a confronto all’udienza del 7.3.1997, all’esito del quale ognuno dei due ha confermato la propria versione.

[…] Non c’è dubbio quindi che il dictum di Avola in ordine all’attività svolta per ottenere il silenziamento della pistola cal. 7,65 non è stato riscontrato e parimenti nulla è emerso con riferimento all’arma usata in occasione dell’omicidio di Andrea Finocchiaro commesso appena tre mesi prima dell’omicidio di Fava, per il quale Avola ha detto che sarebbe stato usato lo stesso silenziatore, seppure la filettatura sulla canna non sarebbe stata fatta da Sgroi, non risultando dagli atti del processo che siano stati sottoposti ad alcun accertamento peritale eventuali reperti relativi all’omicidio di Andrea Finocchiaro e che sia stato opportunamente investigato, sul punto del silenziamento dell’arma, il soggetto che viaggiava in macchina accanto ad Andrea Finocchiaro; il fatto che Sgroi non fosse stato officiato per la filettatura della pistola usata per detto omicidio non appare un elemento significativo, poiché è naturale che la consorteria avesse a sua disposizione diversi artigiani a cui rivolgersi per la filettatura a seconda dei casi, delle necessità e delle contingenze.

L’utilizzo di una pistola silenziata è stata poi esclusa dalla perizia che nella immediatezza del fatto, in sede di indagini preliminari, è stata espletata su incarico del PM dal Prof. Compagnini, il quale ha detto chiaramente che i proiettili repertati non avevano traccia di silenziatore [...] seppure il giornale “La Sicilia” del 6.1.1984 avesse espressamente parlato di un killer solitario armato di pistola munita di silenziatore. […] Parimenti ritiene la Corte che nessun dato certo possa dedursi sul punto del silenziamento della pistola dalla prova testimoniale espletata, poiché le risultanze emergenti da detta prova appaiono tra loro contrastanti e non univoche.

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