Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.


E, in Sicilia, ricominciano anche a uccidere i magistrati.

Ce n’è uno che ha appena condannato i tre killer del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Ma Totò Riina condanna a morte lui.

È il 25 settembre del 1988 e il presidente della Corte di Appello Antonino Saetta è ucciso insieme al figlio Stefano.

Le motivazioni della sentenza con la quale Armando Bonanno, Vincenzo Puccio e Giuseppe Madonia vengono ritenuti colpevoli dell’omicidio sono depositate in cancelleria intorno a mezzogiorno del 16 settembre 1988. Un’ora dopo, a Palermo, rubano l’auto che servirà per l’agguato al giudice.

È finito dopo quattordici anni e dodici dibattimenti. Cancellato a più riprese dalla Cassazione, si è lasciato alle spalle una scia

di morti. Il processo Basile pesa un quintale di carte nel 1994, quando l’ultimo imputato minore – un favoreggiamento – è sballottato fra una Corte e l’altra indecise su chi lo deve giudicare.

Iniziato nel 1981, sospeso per una perizia e rinviato alla primavera del 1983, i sicari del capitano ucciso ricevono la prima grazia dai giudici di Palermo. Condannati in Appello all’ergastolo il 24 ottobre del 1984, il processo viene annullato per un cavillo da Corrado Carnevale il 23 febbraio 1987 e rimandato a un’altra Corte di Assise di Appello. Passa un altro anno.

È il 23 giugno quando 1988 i tre sicari vengono condannati ancora all’ergastolo. La sentenza definitiva arriva solo nel febbraio del 1992. Ma ormai due dei tre sicari del capitano sono morti. Uno, Armando Bonanno, lo fanno sparire. Un altro, Vincenzo Puccio, viene assassinato nella cella dell’Ucciardone dove è stato rinchiuso qualche mese prima.

Rimane vivo solo Giuseppe Madonia.

L’inchiesta su “Caliddu”

Il procuratore Borsellino è ormai da tre anni a Marsala. Ha cominciato a indagare sulla mafia della provincia con il «metodo» sperimentato al pool dell’ufficio istruzione, paese dopo paese, famiglia dopo famiglia. Prima Partanna, poi Castelvetrano. Adesso tocca a Campobello di Mazara.

Una mattina, il maresciallo Carmelo Canale entra nella sua stanza e gli comunica che un grosso trafficante di droga vuole

«parlare», collaborare con la giustizia. Si chiama Rosario Spatola, è solo un omonimo dello Spatola dell’Uditore sul quale ha indagato Giovanni Falcone nei primi Anni Ottanta.

Rosario Spatola è originario di Campobello di Mazara e non ha conti con la giustizia da regolare. Ha qualcosa di più importante da difendere: la vita. I suoi vecchi amici sospettano che abbia fatto sparire un carico di cocaina, lo cercano per ucciderlo. Comincia a svelare particolari dell’omicidio di un sindaco a Castelvetrano, degli interessi economici dei Madonia di Palermo nel trapanese, del delitto di un siriano a Milano. Paolo Borsellino lo studia, capisce che sta dicendo la verità.

Ha grande esperienza il procuratore. Ma Spatola è un tipo stravagante, non sembra il classico mafioso, veste vistoso, è chiacchierone, molto esuberante. Con lui, il procuratore di Marsala stabilisce un rapporto ravvicinato ma sempre dentro le regole. Appena si accorge che Spatola fa le bizze, ne approfitta, Borsellino lo fa rinchiudere in un carcere. Quando esce, un mese dopo, il pentito elenca a Borsellino alcuni nomi di uomini politici invischiati in faccende di mafia.

Soprattutto gliene fa uno: Calogero Mannino.

È uno degli uomini più potenti della Sicilia. Enfant prodige della Democrazia Cristiana agrigentina, in quel 1989 Mannino è la stella del partito nell’isola. Dicono che, forse, è ancora più potente di Salvo Lima. È il padrone dei voti, nella Sicilia occidentale e in quella orientale. È uno degli uomini voluti dal segretario nazionale della Dc Ciriaco De Mita per portare avanti il «rinnovamento» al Sud, è ministro della Repubblica, uno che conta molto anche a Roma. Il pentito Spatola racconta a Borsellino che i mafiosi lo chiamano confidenzialmente Caliddu. Nella suggestione di questo nomignolo, Caliddu, qualcuno imbastisce un’operazione per «azzoppare» o avvertire – non si è mai capito – l’interessato, il ministro Mannino.

La notizia del coinvolgimento di Calogero Mannino in un’inchiesta di mafia finisce sulle prime pagine dei giornali a tempo di record.

Non è l’indagine del procuratore Borsellino, è una parallela aperta a sua insaputa da un magistrato di Trapani che ascolta Rosario Spatola senza informarne lui, titolare del caso, il procuratore di Marsala. Con nomi e cognomi gettati in pasto all’opinione pubblica ancor prima di far partire una verifica o un riscontro.

Paolo Borsellino sospetta una trappola. Frena, procede con prudenza, prova a districarsi da una polemica dove altri lo vogliono trascinare a ogni costo. Una cautela – altra lezione appresa negli anni del pool a Palermo – che però in questo caso rischia di travolgerlo. Qualcuno insinua perfino che intenda «insabbiare» l’inchiesta su Calogero Mannino e gli altri personaggi politici. Fanno girare la falsa voce che per lui «è pronto un seggio al Senato» nelle liste socialiste. Prima gli «bruciano» l’inchiesta e poi tentano di sputtanarlo. Come uno che si è venduto al potere.

Non perde la calma. Fa la sua indagine. Anni dopo sarà ripescata anche dalla procura palermitana di Gian Carlo Caselli che mette sotto accusa il ministro per concorso esterno in associazione mafiosa. Assolto in primo grado, condannato in Appello, Calogero Mannino sarà definitivamente scagionato dalla Cassazione. 

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