Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.


Un lenzuolo bianco avvolge il cadavere. È scoperto solo un piede, dallo spago intorno all’alluce pende un cartoncino.

Scrivono un nome.

È la notte del 4 maggio del 1980. Alla camera mortuaria dell’ospedale civico di Palermo, il medico di guardia certifica «il decesso di Basile Emanuele, nato a Taranto il 27 luglio del 1949».

È un capitano dei carabinieri, il comandante della Compagnia di Monreale. La città di un Duomo superbo e di una mafia sconosciuta.

Il capitano ha appena consegnato in Tribunale un rapporto di sessantadue pagine. La sua condanna a morte.

Le carte sono nell’armadio blindato del giudice istruttore

Paolo Borsellino, il magistrato che assieme a lui ha seguito fin dall’inizio l’indagine e che questa notte esplode in un pianto disperato. È in lacrime, in fondo ai viali dell’ospedale. «Mi hanno ammazzato un fratello», singhiozza nel buio.

In meno di un anno, ne ha persi due di amici che davano la caccia ai boss di Monreale.

Il 21 luglio del 1979, il capo della squadra mobile Boris Giuliano. E ora Emanuele Basile. Chi sono gli assassini?

«Li abbiamo presi, questa volta li abbiamo presi», avvisa un ufficiale dei carabinieri.

Sono già rinchiusi in una caserma di Palermo. Uno è Armando Bonanno, l’altro Vincenzo Puccio, il terzo Giuseppe Madonia.

Li hanno fermati in aperta campagna, due ore dopo il delitto.

Sono sporchi di fango. Lungo un sentiero trovano anche l’auto usata per la fuga. Dentro c’è una pistola che ha appena sparato.

Dicono i killer: «Siamo qui perché abbiamo avuto un incontro galante con donne di Agrigento, signore sposate, siamo dei gentiluomini e non faremo mai i loro nomi». È il loro alibi. Sarà per sempre il loro alibi. Da quando incontra quei tre sicari di mafia, Paolo Borsellino entra in un’altra vita. Gli assassini del capitano decidono il suo futuro.

Il comandante della compagnia dei carabinieri di Monreale è stato ucciso in mezzo alla folla del Santissimo Crocifisso, la processione che, da tre secoli e mezzo, si ripete nella notte fra il 3 il 4 maggio. Per la prima volta, la statua l’hanno portata per le strade nel 1626 e il Santissimo Crocifisso ha spazzato via il «morbo rio», la peste di Monreale.

Emanuele Basile ha in braccio la figlia Barbara, la moglie Silvana è fra bancarelle stracolme di ceci abbrustoliti, torrone caramellato, semi di zucca secchi. I tre sbucano da una stradina, in un attimo gli sono alle spalle. Fanno partire i primi colpi quando il cielo s’illumina dei fuochi d’artificio. Esplode la masculiata, l’atto finale dei giochi pirotecnici, i botti.

Silvana scambia il primo sparo per un mortaretto. Poi Barbara, quattro anni, si ritrova in mezzo al sangue del padre. Due testimoni vedono tutto. Parlano, raccontano, riconoscono gli assassini. Non è mai capitato a Palermo. «È un’inchiesta facile che si può chiudere in fretta», annuncia Paolo Borsellino ai suoi colleghi della procura.

Manca solo la prova del guanto di paraffina.

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