Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.


Sempre più spesso lo trovavo sdraiato sul suo letto, assorto e assente, a fissare il soffitto. Io restavo sul ciglio della porta con la solita triste domanda: «Papà, che hai?». Lui dava la solita secca risposta con un filo di voce: «Sono stanco».

Ancora oggi è la frase che mi risuona nella mente più di ogni altra. Già allora percepivo quanto ci fosse dietro quelle due sole parole; oggi che conosco tutta la verità della doppia vita che conduceva, hanno una valenza e un peso per me insopportabile e devastante. Una mattina di inizio maggio, entrò nella mia camera, si sedette sul mio letto baciandomi la fronte e mi svegliò. Era bello come il sole, bellissimo... aveva indosso il suo abito del matrimonio con Cetty.

«Amore di papà, sto partendo...» Quello sguardo di amore intenso era da tanto che non lo vedevo puntato su di me; non sapevo nulla di quella partenza e in un secondo mille pensieri affollarono la mia testa. Quel vestito, una partenza non comunicata... sollevandomi dal letto, la prima domanda preoccupata fu: «Quando torni?». La sua risposta: «Vado a Roma, torno presto...». Mi aggrappai con tutta la forza al suo corpo, lo baciai, ero piena di amore per lui, come in passato: nonostante la sua severità, i suoi sguardi duri – soprattutto degli ultimi mesi – era sempre il mio gigante buono, era il mio respiro, il mio cuore, era l’uomo che insieme ai miei fratelli amavo di più al mondo. Era mio padre.

Quella partenza per noi improvvisa, quel saluto così amorevole erano stati fonte di grande apprensione, ma il rivederlo a casa appena dopo un giorno ci rasserenò l’animo. Mi chiamò nella camera di mia sorella, ci sedemmo tutti e tre sul letto. Era evidente che non ci fosse in lui nessuna volontà di rimprovero, ma quelle riunioni a tre annunciavano sempre comunicazioni importanti. Baciandoci entrambe con infinito amore ci strinse a lui e cominciò il suo discorso.

Sono passati venticinque anni ma riesco perfettamente a risentire il suono della sua voce e delle parole che stava pronunciando. «Amori di papà, vi devo dire una cosa... papà deve rientrare in galera, non per molto ma deve farlo... Voi state serene per favore, non potete più permettervi di comportarvi male, rimarrete a casa con Cettina, i bambini, la signora Nuccia e il nonno. Ormai siete grandi e io ho la necessità, per affrontare questa cosa, di sapervi serene e tranquille, non posso avere il pensiero di voi che vi comportate male e fate arrabbiare Cettina, lo dovete fare per me!».

Quella notizia era la più brutta che potessimo ascoltare, il mondo di nuovo crollato sulle nostre spalle, l’ennesimo distacco, allontanamento, abbandono che mai avremmo voluto vivere. Tra le lacrime, con la voce rotta dal pianto, la mia prima domanda fu: «E ora come faremo a venire da te? Cetty ha sempre detto che non verrà mai a fare un colloquio in carcere... noi vogliamo vederti». Papà, con gli occhi lucidi e un nodo in gola che cercava di superare per darci coraggio, rispose di stare serene, che ci avrebbe pensato lui e che noi saremmo andate a trovarlo regolarmente come in passato.

Il silenzio assordante della stanza era infranto dai nostri singhiozzi di figlie disperate. La nostra vita stava cambiando ancora una volta... la nostra vita stava peggiorando di nuovo. I mesi sereni che avevamo vissuto erano già un lontano ricordo, tutto nuovamente sfumato, tutto durato troppo poco, ancora una volta ci sentivamo rubare l’unica felicità vera che avessimo mai assaporato.

Da quell’esatto momento, i nostri umori già provati dalle avversità subite nelle precedenti settimane ebbero un tracollo finale. A casa non si parlava più, non si sorrideva più, non si viveva più.

Incubi

La notte di quella stessa sera, io ebbi un incubo. Sognai di trovarmi a casa quando il citofono aveva suonato e a rispondere al mio «Chi è?» era stata la voce di Francesca, che mi chiedeva di papà perché si era messa in un altro pasticcio.

Insieme a lei c’era una volante della polizia, un carabiniere chiedeva di conferire con papà perché mia sorella era stata fermata e «beccata» a guidare una motocicletta senza avere il patentino, dunque la polizia doveva verbalizzare e contestare l’accaduto a un genitore. Avevo risposto che papà non era in casa ed era sceso da Bonaffini, il piccolo negozio di generi alimentari a lato del nostro palazzo, dove da una vita facevamo la spesa.

Ero andata ad avvisarlo di quanto stava accadendo e della necessità della sua presenza. Arrivata all’interno della piccola bottega, avevo chiesto immediatamente al proprietario dove fosse papà e lui, con aria triste, mi aveva fatto cenno verso il retrobottega; avevo superato la cassa e trovato papà in lacrime.

Mai avevo visto la mia «roccia», il mio gigante buono piangere in quel modo. Mi ero gettata tra le sue braccia e confusamente gli chiedevo di dirmi cosa stesse succedendo, perché piangeva. Lui, continuando a singhiozzare, mi aveva detto che c’erano due persone all’angolo opposto della bottega, che io non avevo notato, e volevano ucciderlo. […].

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