Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.


Foto, immagini, registrazioni audio, trascrizioni di confessioni e addirittura filmati. Ci volle un po’, ma tutto purtroppo era sempre più chiaro... Papà aveva deciso di collaborare con la giustizia, ma non in modo convenzionale; aveva scelto la maniera, a mio avviso, più sfrontata, pericolosa, scellerata e discutibile, mai vista fino ai giorni nostri.

Fu il primo e unico «infiltrato» nella storia italiana mafiosa. Quel famoso Bruno, che sentivo chiamare dal telefono di casa, venni a sapere che non era altri che il colonnello dei Ros, Michele Riccio. Michele... quel nome che destò tanta curiosità da parte nostra alla nascita dei gemelli e di cui non capivamo il perché. Appresi da tutto il materiale disponibile, che mi angustiava ma che volevo conoscere, il loro rapporto «speciale»: mio padre aveva intrecciato con lui un legame di strette confidenze e dichiarazioni registrate su nastri, e nelle svariate ore che trascorsero insieme durante quel delicato e difficoltoso cammino si legò emotivamente a lui.

Aveva affidato la sua vita, ma soprattutto la nostra, a quell’unico uomo che oltre a proteggerlo in vesti istituzionali, tutelando la sua e nostra incolumità, era anche un suo fraterno amico. A oggi, la mia valutazione sulle sue scelte rimane contrastante su molti aspetti.

L’unica certezza è che è stato un pazzo, ha sopravvalutato sé stesso e soprattutto lui, Michele, e quello «Stato buono» che doveva accompagnarlo nell’insidioso e pericoloso cammino. Per molti oggi è un eroe, un uomo coraggioso come pochi, forse come nessun altro. Io, da figlia, non posso che valutare con amarezza anche il rovescio della medaglia e criticare la maniera di portare avanti la sua scelta azzardata (la leggerezza, potrei dire), con cui ahimè ha messo a rischio la vita mia, di mia sorella, dei miei fratelli e di Cettina, la sua amata moglie.

Avrebbero potuto farci del male, sciogliere anche qualcuno di noi nell’acido, come accadde a quel piccolo angelo di Giuseppe Di Matteo. È difficile spiegare anche a me stessa come quell’uomo, che ci amava tanto visceralmente, ne sono certa oltre ogni ragionevole dubbio, abbia rischiato così tanto sulla nostra pelle innocente.

Non saremmo stati né le prime né le ultime vittime della mafia, che già da tempo ormai non aveva dimostrato alcuna pietà nel punire il tradimento dei suoi affiliati.

Alla ricerca di Bernardo Provenzano

[…] Con un lavoro duro, senza darmi tregua a livello emotivo e scoprendo nuovi linguaggi, regole, ambienti, persone impegnate a ricercare la verità, ancora oggi, dopo venticinque anni, aggiungo e tolgo tasselli a quel puzzle ricomposto più volte e buttato per aria altrettante. Unisco ciò che leggo, che imparo giuridicamente, mi confronto con altre versioni e ricordo mio padre. Questa è la parte più difficile: legare i ricordi di figlia al linguaggio spesso burocratico e asettico delle indagini. Per me, per noi, nulla è asettico. Tutto diventa emozione.

Uno di quei giorni in cui lo vidi sdraiato sul letto, quando alla mia domanda su cosa avesse mi rispose che «era stanco», aveva indosso pantaloni e un maglione dolcevita neri, ben distanti dal suo solito abbigliamento elegante e di buon gusto. Lui, poi, detestava il nero. Oggi, so che quello fu il giorno stesso del suo sopralluogo e appostamento con i Ros e Riccio al casolare di Bernardo Provenzano. Viaggiò parte della notte e della successiva mattina vestito di scuro, nascosto dietro il sedile di un’auto civetta.

Le persone vedono l’impresa, l’azione, ciò che stava facendo e l’importanza di tale gesto. Io non riesco che a provare pena e compassione nel sapere il mio gigante rannicchiato in quelle condizioni, come una bestia stipata nei furgoncini che portano gli animali al loro ultimo giorno di vita. Cerco di immaginare spesso cosa pensasse in quei concitati momenti; immagino l’adrenalina, l’inevitabile paura, i sensi di colpa e il timore di una ritorsione nei nostri confronti se qualcosa fosse andato male.

Penso al fortissimo tormento interiore che, ne sono certissima, affliggeva il suo animo durante quel cammino di lucida follia. Ripenso a tutte le volte che mi sono sentita rispondere «sono stanco» e già percepivo il suo mondo nascosto dietro due semplici parole. E non osavo andare oltre, perché in famiglia si era educati al silenzio. Adesso capisco la verità della sua stanchezza fisica, ma più che mai, ora posso dirlo, psicologica, e la tensione estrema per ciò che stava facendo.

Vidi, rividi, stoppai milioni di volte il fermo-immagine del suo incontro a Mezzojuso, dove condusse i Ros e i carabinieri: lì c’era lo Stato italiano, non solo simbolicamente, per la cattura «mancata» di Provenzano. Sento... immagino il contrordine del generale Mori, l’ubbidienza del colonnello Riccio. Perché ubbidì?! Perché?! Risuona in me la domanda senza risposta certa. Lo mandarono lì dentro solo, indifeso, senza un’arma addosso. Aveva cambiato due auto per presentarsi da zio Binnu, aveva rischiato un controllo dei suoi uomini, che tutelavano il protocollo del loro «Santo Patrono» per quelle rare persone che potevano avere il privilegio di vederlo, e mio padre era tra questi, perché faceva parte di un’antica famiglia mafiosa, «l’aristocrazia» di Cosa nostra.

Figlio, nipote di «uomini d’onore», di massoni anche, potenti, spregiudicati, inseriti, che conoscevano molto e sapevano tacere sempre. Uomini cerniera tra la parte nascosta di Cosa nostra e quella dei presentabili, che custodivano segreti di strada e di cosche, di boss e politici emergenti o già affermati. Omertà sempre.

Arrivò lì dentro con il cuore che probabilmente faceva fatica a contenere nello sterno, aspettava un plotone di forze armate che da un momento all’altro avrebbero fatto la più degna irruzione da film all’interno di quel casolare, minuti, attimi infiniti di attesa... e mai quegli uomini arrivarono. Aveva espresso anche un desiderio per quel finale da film mai consumato: «Non fatemelo guardare più in faccia quando lo arresterete, non avrò più il coraggio di incontrare il suo sguardo dopo ciò che ho fatto».

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