Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.


Giovanni Falcone scambia le informazioni della sua indagine con Gherardo Colombo e Giuliano Turone, i giudici milanesi che stanno rinviando a giudizio Sindona per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli.

S’insospettisce per una loggia segreta, la «Camea», che è una piccola P2. Ormai si rende conto che la sua inchiesta sull’ex venditore ambulante di latte è in realtà un’inchiesta su tutta la mafia di Palermo.

Giovanni Falcone ha bisogno intorno a sé di uomini capaci per poter andare avanti, per non fermarsi alla borgata dell’Uditore e alle valigie piene di dollari che tornano da Cherry Hill. Li trova. Nella Finanza c’è il colonnello Elio Pizzuti. Nella Polizia ci sono il capo della sezione «investigativa» Ninni Cassarà e quello della «catturandi» Giuseppe Montana. Nei carabinieri c’è il capitano dell’Anticrimine Angiolo Pellegrini. Alcuni sono siciliani e altri vengono da fuori, non hanno rivalità di corpo, fanno sempre «coordinamento» – espressione burocratica che in quegli anni non è ancora in uso tra ministri e alti papaveri – e lo fanno con naturalezza: per salvarsi la pelle.

Un prodigioso apparato investigativo sta per mettersi in moto contro la mafia siciliana. Giovanni Falcone si è lasciato per sempre alle spalle la sonnolenza di Trapani, i fine settimana alle Egadi, le cene al Ciclope su a Erice, la laguna di Mozia, le saline.

Palermo è in guerra. È in quei mesi che conosce Francesca Morvillo. Un incontro a casa di amici, una simpatia che diventa amore. Anche lei è magistrato, alla procura dei minorenni. Magistrati pure il padre e il fratello Alfredo. È una relazione alla luce del sole ma, al Palazzo di Giustizia, cominciano a circolare pettegolezzi. Voci sempre più calunniose, veicolate da colleghi e dai soliti avvocati. Quel legame dà scandalo.

È l’occasione perfetta per un intervento ufficiale. Il primo presidente della Corte di Appello, Giovanni Pizzillo – lo stesso che qualche anno prima ha consigliato a Rocco Chinnici di «caricare di processi» Falcone – convoca il giudice nella sua stanza. Lo avverte che investirà del «caso» il Consiglio Superiore della Magistratura, annuncia che forse ci sono anche le condizioni per il trasferimento in un altro distretto giudiziario di uno dei due, lui o Francesca, per «incompatibilità ambientale». Falcone non fa una piega. Pizzillo non si muove. Il suo avvertimento l’ha lanciato.

Contro Falcone è già nato un «partito» dentro il Tribunale. Ci sono quelli che lo denigrano. Come Beniamino Tessitore e Giuseppe Prinzivalli. Altri che si fingono amici. Come Vincenzo Geraci. Monta ogni giorno di più un risentimento verso quel giudice che sta dimostrando una notevolissima capacità investigativa e una profonda conoscenza del fenomeno mafioso. È un magistrato unico nel panorama italiano. La città mafiosa lo teme. Aspetta solo una sua mossa falsa per colpirlo. Palermo si scopre all’improvviso «garantista». Si riempie di valorosi sostenitori delle libertà civili, che gridano instancabili «al rispetto delle regole», che puntano il dito contro «quello che vuole arrestare tutti». E poi un giudice è un giudice. E non «combatte». Neanche contro la mafia.

Un giornale amico dei potenti

Il Giornale di Sicilia dà spazio a chiunque parli male di Falcone. Gli attacchi a mezzo stampa sull’«antimafia spettacolo» si fanno sempre più sfacciati mano a mano che le sue indagini vanno avanti. Il messaggio che passa ogni giorno dalle pagine del quotidiano più letto della città è che l’opera del magistrato è tutta una «sceneggiata». C’è mezza Palermo che batte le mani.

Per anni, Il Giornale di Sicilia l’ho sfogliato per i necrologi. Le notizie vere si trovavano solo in quelle pagine. Moriva un potente e mi andavo a leggere chi piangeva l’«amico fraterno» o portava l’ultimo saluto alla «figura indimenticabile». Sotto quelle due righe dei «dolorosamente colpiti dell’improvvisa scomparsa», c’erano nomi e cognomi, uno dietro l’altro o sparsi nei diversi annunci funebri. A volte il necrologio mi confermava ciò che già sapevo sugli intrecci di un certo ambiente, a volte mi riservavano sorprese. Scoprivo personaggi insospettabili legati fra loro e avvicinati dalla comune amicizia con il morto. Per il resto, Il Giornale di Sicilia era sempre molto prevedibile. Sempre schierato con il potere di Palermo. Lo specchio della città palude.

Ma anche lì dentro non erano tutti uguali. Non ho mai conosciuto Mario Francese, il cronista giudiziario del «Sicilia» ucciso dalla mafia il 26 gennaio del 1979. Di lui mi hanno parlato i colleghi più anziani, come di un uomo generosissimo e di uno straordinario giornalista. Mario Francese è morto per alcuni articoli sugli affari dei boss. Mentre lui scriveva, il suo editore – il Cavaliere Federico Ardizzone – i boss li frequentava. Mario era un altro uomo solo di Palermo.

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