I calciatori smettono di giocare nell'età in cui un adulto non troppo fortunato sta ancora cercando lavoro. Hanno tempo davanti e, se sono stati bravi, soldi a disposizione per reinventarsi. Non sempre è facile, perché vivere di rendita è ozioso e privo di gratificazioni (sì, ora l'obiezione sarebbe che l'adulto non troppo fortunato di prima vorrebbe poter aver problemi del genere, ma è invece una credibile questione di prospettiva) e perché il richiamo fanciullesco del campo, dove fino al momento del ritiro un giocatore ha passato l'intera vita, spinge a provarle tutte per restare in quel mondo, con un ruolo dirigenziale, tecnico, come opinionista o qualsiasi cosa che non apra il cancello dell'unico recinto conosciuto.

Poi, invece, c'è chi costruisce il secondo tempo della sua vita aprendosi ad altre professioni, cercando un lato imprenditoriale di sé. E la ristorazione è un settore che finisce per essere spesso il più coinvolgente. Forse è una conseguenza: chi ha vissuto una bella vita da frequentatore di ristoranti di tendenza, quando smette di giocare vuole continuare a viverla, va bene anche dall'altra parte della barricata.

Oppure è una specie di sindrome della capanna, ma dolce: il ristorante, per un calciatore, è anche una stanza aggiuntiva di casa propria, quando non sa dove andare in una città che non è la sua, quando ha bisogno di un posto tranquillo, di un amico (spesso il ristoratore) che lo ascolti.

La storia dei calciatori che decidono di servire a tavola è una storia di idee, visioni, pazzie, investimenti rientrati, sfizi o anche fallimenti. Ci provano in molti, pure i fuoriclasse, che certo con i gol hanno guadagnato molto di più, ma con la gola male non se la passano.

Il titolare è testimonial

Gli investimenti di solito si fanno all'apice della carriera, quando ci sono contatti, rapporti facilitati con l'esterno, sponsor personali e anche una maggiore disponibilità economica. Il calciatore prepara il terreno per dopo, ma soprattutto sa che in quel momento ha un appeal maggiore, può sfruttare la notorietà. E la fama del proprietario servirà quanto la fame degli avventori.

Javier Zanetti, ad esempio, ex capitano e ora vicepresidente dell'Inter, del suo ristorante milanese (fondato con Esteban Cambiasso) è anche un'attrazione: nella presentazione che si trova sul sito del locale c'è un amo lanciato a tifosi e appassionati, ovvero «la possibilità, per chi è fortunato, di incontrare il Capitano».

Il ristorante, in zona Brera a Milano, si chiama il “Botinero”, deriva da botinas che in argentino vuol dire scarpe, stivali e ha a che fare con ciò che si vede entrando nel ristorante, tra scarpe (appunto) di vari compagni d'avventura di Zanetti, fasce da capitano, maglie di squadre, fotografie di calciatori e tutto quello che fa pensare che se sei un cliente affamato potresti trovarti bene, se sei un innamorato del calcio, pure.

È il caso, piuttosto frequente, del titolare che diventa testimonial, del campione che investe nel locale, nella cucina e nella sua reputazione. Alessandro Del Piero, bandiera della Juve diventato icona mondiale, ci ha messo la faccia, ma anche la maglia, al punto da chiamare il suo ristorante a Los Angeles, “N10”, che è il numero che indossava lui alla Juve, quello che di solito finisce sulle spalle del calciatore che fa sognare i tifosi e in questo ristorante è un tratto identitario, perché rimanda al proprietario, nella presentazione dell'attività descritto senza alcun giro di parole come “Italian football legend Alessandro Del Piero”.

Anche qui il ristorante ruota attorno al fondatore, del quale c'è una sezione dedicata sul sito e, all'interno del locale, una sfilata di foto con altri calciatori ed ex, ma anche un angolo assai visitato nel quale c'è una Coppa del Mondo sotto una teca.

Quando smise di giocare, Alessandro Del Piero chiese alla Juventus di non ritirare la maglia numero 10, com'era invece nelle intenzioni della società, per lasciare ad altri, più giovani e non necessariamente più talentuosi, la possibilità di sognare di indossarla. Ma quello è rimasto il suo numero chiunque lo porti sulla schiena, al punto che quando Del Piero ha provato, nel 2019, ad aprire lo stesso locale a Milano (poi fermatosi durante la pandemia senza più riaprire) l'inaugurazione venne fissata il 10 ottobre (ovvero: il 10/10) alle 10.10 e l'intento era quello di fissare un evento ogni 10 del mese.

Aria di casa, lontani da casa

I calciatori non hanno una casa stabile, perché vivono dove giocano e spesso scelgono di rimanere dove meglio si sono trovati. Molto raramente, quindi, il posto in cui nascono è lo stesso in cui fanno carriera.

Casa è tutto quello che riescono a creare con le relazioni, le esperienze, anche attraverso il cibo. È la comunità che li accoglie, ma anche le proprie radici che scelgono di riprodurre pure altrove. Alessandro Del Piero ha aperto un ristorante di cucina italiana moderna a Los Angeles, Javier Zanetti un ristorante argentino a Milano. Portano con loro il mondo a cui appartengono, e non sono i soli.

Il “Papu” Gomez, da qualche settimana campione del mondo con l'Argentina, ne è una rappresentazione completa, perché ha cementato il suo legame con Bergamo, città che lo ha praticamente adottato per sei campionati e mezzo giocati da attaccante dell'Atalanta, tornando per aprire un ristorante argentino a maggio di un anno fa, anche se nel frattempo aveva cominciato a giocare, e naturalmente a vivere, a Siviglia.

In più, non solo il ristorante ha tutti gli ingredienti culinari e i colori argentini, dall'asado alla gigantografia di Maradona con la coppa del Mondo (non era ancora arrivato il momento di Messi, il giorno dell'apertura), ma si chiama “Boedo”, come il barrio di Buenos Aires in cui il Papu è cresciuto, lo stesso quartiere che ha dato i natali al San Lorenzo de Almagro, squadra per cui tifa papa Francesco e in cui Gomez, che del ristorante autografa ogni menù, si è affermato prima di volare in Italia, a Catania.

Ancora più alle radici è andato Ivan Cordoba, colombiano ex difensore dell'Inter e ora nel board del Venezia, che ha praticamente portato un pezzo del suo paese a Milano. Partendo dall'insegna: il ristorante milanese si chiama Mitù, che è il nome di una città che, al confine con il Brasile, è praticamente raggiungibile solo in aereo e fa da porta d'ingresso alla foresta amazzonica colombiana.

Le intenzioni, non di aprire un ristorante colombiano ma di far respirare lo spirito della Colombia, trovano poi sponda nella scelta di affidarsi alla consulenza di Alvaro Clavijo, uno degli chef più famosi di Bogotà, e di far realizzare gli interni e gli arredi da artigiani colombiani, in modo da accentuare il richiamo alla terra d'origine del campione.

Uno dei calciatori veterani della ristorazione è Pietro Paolo Virdis, ex attaccante di Juve, Milan e Cagliari. Dalla sua Sardegna ha importato un pezzo di terra a Milano, città dove invece si è stabilito: lo si esplora mettendo piede a “Il Gusto di Virdis”, che una ventina di anni fa era un'enoteca e qualche anno dopo è diventato anche ristorante.

Però ha un corredo di foto e cimeli più discreto rispetto agli altri colleghi, visto che il centravanti che Pellegatti soprannominò Indiana Jones tiene così tanto al palato degli avventori da mandare in secondo piano le celebrazioni di sé stesso e del suo passato glorioso da calciatore. Che, però, emerge in un dettaglio curioso, dicono del tutto accidentale: la domenica, giorno del pallone, il locale è chiuso.

L'esperienza di Marchisio

Sta abbastanza bene in questo mondo Claudio Marchisio, che non è solo un altro calciatore che ha aperto un ristorante (peraltro, ne ha aperti quattro), ma anche uno che fa ancora il centrocampista nella vita fuori dal campo.

Perché pensa, analizza, prende il ritmo, cerca la mossa giusta come chi opera in mediana, anche da imprenditore della ristorazione, scelta appunto diffusa tra i suoi colleghi, ma a cui riesce a dare una spiegazione: «Un calciatore, nella sua fase da professionista, non fa molta vita sociale. Così, a volte, il ristorante è l'unico luogo in cui puoi incontrare gente o anche un rifugio se vuoi isolarti e non sai dove andare. E quando smetti di giocare in qualche modo torni in quel luogo che era tuo, con un altro ruolo. Non è una moda del momento, ma un modo di investire con una certa storicità. Ed è un bene, perché i calciatori italiani così ricreano il senso di comunità di quando giocavano, ma anche perché gli stranieri che vengono qui e poi ci restano, per affetto, per lavoro o appunto per i ristoranti, investono e creano un circuito economico che resta nel nostro paese. È un modo per diversificare i guadagni di una carriera. All'inizio, poi, essere un nome aiuta. Sicuramente c'è chi viene perché è il ristorante “di”. Poi, però, il cliente resta se c'è la qualità, che è ciò che realmente serve. È il tempo che dà ragione all'investimento.».

Nel caso di Marchisio il ristorante nasce quasi da un'esigenza personale, poco più di sei anni fa, quando giocava ancora e viveva a Vinovo, 13mila abitanti alla periferia di Torino, lì dove nascono, crescono e giocano gli juventini: «Il primo ristorante l'ho aperto proprio a Vinovo, vicino allo Juventus Center. Mi sono sempre chiesto perché in periferia non arrivasse il sushi, perché doveva restare un'esclusiva del centro delle città. Allora ci ho pensato io». Si chiama “Legami – Sushi & more” e che faccia cucina giapponese fusion lo si capisce leggendo il nome. Ma è già più di un ristorante, essendo diventato una catena: «Dopo il primo ristorante mi sono appassionato e con mio cugino ne ho aperti altri. Alcuni sono nati dalla volontà dei clienti stessi. Alcuni, ad esempio, erano in vacanza in Sardegna, venivano al nostro ristorante e ci chiedevano: “Perché non aprite una cosa del genere a Roma?”».

A Roma, adesso, il ristorante c'è, un altro è a Bergamo, e poi, nei mesi estivi, a Poltu Quatu, in Costa Smeralda. In totale una cinquantina di dipendenti fissi più gli stagionali, comandati da Vinovo, in un'organizzazione che Marchisio spiega con il linguaggio del pallone: «I ristoranti sono nello stesso spogliatoio, ma anche uno spogliatoio ha i suoi leader. Nel primo, quello di Vinovo, ci sono i senatori del gruppo che fanno anche formazione a chi si occupa degli altri locali».

Al ristorante come in campo

A volte la vita dopo il campo è uguale a una partita, e per immaginare il ristorante di un calciatore basta riguardare il suo proprietario quando giocava (o gioca, se non ha ancora smesso). Ciro Ferrara, ad esempio, è stato capace di passare dal Napoli alla Juve, due piazze che generalmente non si perdonano nulla, e di essere amato da una parte e dall'altra, ha giocato nel Napoli di Maradona che sembrava l'immagine della lotta al potere del pallone e nella Juve che invece quel potere lo evoca da sempre, senza sembrare incoerente. E, quindi, che abbia aperto una ristorante-pizzeria napoletana a Torino, dove ormai vive, è perfettamente in linea con il suo vissuto. Si chiama “Da Ciro”, per non sbagliarsi.

Oppure Gattuso, che a Gallarate ha deciso di investire nella ristorazione, moltiplicandosi come faceva in campo quando sembrava di vederlo ovunque, ma era sempre lui. “Ringhio” ha fatto squadra con il pasticcere Andrea Bianchi e ha aperto la “Posteria San Rocco”, in una costruzione ottocentesca, e il “Bistrot Gattuso&Bianchi”, entrambi basati sulla cucina a base di pesce e, anche qui, il calciatore che trovava da solo una soluzione alle esigenze della sua squadra, va da solo a produrre il cibo, che arriva direttamente dalla pescheria di Gattuso e Bianchi, appunto, che hanno pure un marchio di prodotti alimentari.

Ha conservato la fantasia che aveva in campo invece Clarence Seedorf, ex centrocampista di Milan, Inter e Sampdoria, che passa dalla cucina nippo-brasiliana dei “Finger's restaurant”con Roberto Okabe alla creazione del “MM Lounge Restaurant”, coraggioso investimento a Torre del Greco con affaccio sul Golfo e vista su Capri. Coraggioso perché parte per essere un ristorante multisensoriale, che qualunque cosa voglia dire è un'etichetta assai creativa, e ambisce a essere un format da esportare creando una nuova catena. Ora, intanto, il ristorante ha cinque anni ed è meta abituale dei vip di zona.

Ronaldo con le stelle

Per lo stesso motivo, probabilmente, ovvero che l'atteggiamento da titolare di un ristorante non può esser diverso di quello da calciatore, Cristiano Ronaldo non fa gruppo con i “comuni mortali” con i quali gli è capitato di giocare, ma ha iniziato la sua attività (ora, naturalmente, moltiplicatasi) da ristoratore con l'apertura (e anche la chiusura) di “Zela” a Londra, entrando nella società che con Rafa Nadal e Enrique Iglesias gestisce il gruppo Tatel e altri ristoranti.

Di recente CR7 è entrato anche in affari con Burak Özdemir, chef turco di ventisette anni e star mondiale di TikTok con quasi settanta milioni di follower. Ma forse non è il caso di ricostruire per intero le attività di chi in carriera ha messo da parte una montagna di soldi e nei prossimi cinque anni sarà pagato dagli emiri sauditi un miliardo di euro (netti).

Perché è cosa complicata, probabilmente, anche per Cristiano Ronaldo stesso, che tuttavia una certa predilezione per i ristoranti di lusso ce l'ha, visto che un anno fa, non convocato dal Manchester United per un acciacco nella partita con l'Aston Villa, prese il jet privato da 20 milioni di sterline per andare a cenare con la compagna Georgina a Madrid, al “Cenador de Amos”, ristorante tristellato parecchio gradito al campione dai tempi del Real. Ma anche questi sono affari suoi, seppure in un altro senso.

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