Vinci a Napoli e poi scappa. Sembra questo il motto: un po’ per l’insostenibilità della città che abbraccia fino a far mancare l’aria, un po’ per la paura di non riuscire a replicare l’impresa, alla fine chi vince fugge o viene allontanato. Sembra strano ma tutti quelli che hanno vinto poi se ne sono andati: cominciò Maradona, che aveva resistito al primo scudetto (1986-87), alla perdita del secondo l’anno dopo – per conto suo fu cacciata la banda dei quattro: Salvatore Bagni, Bruno Giordano, Claudio Garella e Moreno Ferrario – ma con la vittoria della Coppa Uefa (1988-89) aveva la parola del presidente del Napoli che allora era Corrado Ferlaino, ma che poi si rimangiò tutto fino al secondo scudetto (1990) e alla fuga di Diego dopo la positività per cocaina (1991).

Diego e gli altri

Sono scappati Ezequiel Lavezzi dopo una vittoria in Coppa Italia e Gonzalo Higuain dopo uno scudetto perso in albergo con la vittoria della classifica marcatori e record di 36 gol. È scappato Luciano Spalletti l’allenatore del terzo scudetto (2022-23) e dopo anche i tre calciatori simbolo: Kim, Osimhen e Kvaratskhelia.

E ora è a forte rischio anche la fuga di Antonio Conte, l’allenatore dell’eventuale prossimo quarto, atteso venerdì 22 maggio.

Le parole di Eduardo

Napoli, abbiamo un problema. Le ultime parole che Eduardo De Filippo disse nel suo teatro napoletano, il San Ferdinando, prima di pensionarsi come attore e tornarsene a Roma, vengono dalla commedia Sik Sik e l'artefice magico: «Il culombo che si trovava in quella gabia l'ho fatto sparire, l'ho fatto trovare nel cappello del signore...E l'ho fatto diventare pollastro!».

Era il 1979, Eduardo sarebbe morto nel 1984, l’anno in cui arrivò a Napoli il calciatore Diego Maradona. Dopo niente è stato come prima. E tanti sono stati i colombi diventati pollastri nei cappelli a cilindro. È probabile che li trasformi l’oppressione della città, che fa apparire l’apprensiva mamma ebrea del romanzo Portnoy di Philip Roth una donna per niente invadente.

Napoli si azzecca addosso a quelli che possono darle la possibilità di vincere – che agli occhi di chi guarda dal nord diventa riscatto – figurarsi a quelli che vincono.

La figura di De Laurentiis

E se negli anni maradoniani lo stesso Ferlaino si definì carceriere, che poi era solo la paura ancestrale di perdersi il metodo e il mezzo per vincere e ritornare a vagare alla Ulisse prima di ritrovare un titulo calcistico; in questi anni la figura di Aurelio De Laurentiis è andata perfino oltre, apparendo come uno di quei demoni usciti dalla pagine di Stefano Benni, non è che fanno paura, anzi, sono un male simpatico, che poi genera anche situazioni che innamorano le folle, tipo un derivato della religione berlusconiana a Milano, ma senza la politica, solo col calcio.

Un tiranno che consuma quelli che contribuiscono a reggergli l’impero. È una catena: senza la tirannide – d’impresa – non c’è la possibilità di avere allenatori capaci e giocatori che rispondono agli allenatori capaci e viceversa. Intorno la città che è sempre in fermento genera ondate di aspettative, lo scrittore Nicola Pugliese diceva per nostalgia e risentimento di non essere più capitale e quindi ogni occasione era buona per tornare al centro del racconto italiano, eclissando le altre città.

In questo contesto chi sta al centro del vulcano, alla fine si consuma, tra il demone benniano e le sue richieste e la città e la sua voglia di rivalsa. E allora uno si dice ma non l’aveva detto pure Eduardo prima di dirci che ogni colombo diventa pollastro che potevano fujre da Napoli? Poi, se uno scorre, scopre che quasi tutti quelli che oggi sono al centro del racconto napoletano, i santini con murale, alla fine se ne sono andati. Via Pino Daniele, via Massimo Troisi, via Luciano De Crescenzo, via Eduardo, via Totò, e via cantando tutti gli altri santi minori.

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Una città che accerchia

È Napoli che è troppo e accerchia, o per voler bene e capire Napoli bisogna starle lontano? L’impressione, leggendo tra le righe dell’introverso Antonio Conte, prossimo candidato alla fuga con titulo, è che squadra e città siano un continuo concerto dei Metallica, e anche uno elettrico come Conte – stando a quello che mette in scena a bordo campo – alla fine sia stato piegato.

Alla combinazione De Laurentiis-Napoli è difficile resistere. Viene da chiedersi quanto avrebbe resistito Maradona oggi. Il percorso è ormai istituzionale: si arriva colombissimi, con l’entusiasmo e la voglia di lasciarsi predare da questo popolo esagerato e generoso: cucina, modi, lingua con grande musica e cinema e tour da Goethe: Caravaggio, Pompei, chiese, palazzi, musei, e poi di nuovo cucina e canzoni e golfo e Vesuvio, con la prima scossa tellurica che chiama anche un pensiero scritto, e così si entra nell’eterno giorno napoletano di esagerazioni e ammore e rummore, e si finisce pollastri sfiniti che implorano la fuga.

I colombi e i pollastri

Ma arriva la vittoria, l’agognato titulo, e tutto si moltiplica, e si crolla, accettando qualunque cosa pur di scappare, per spiegarlo due anni dopo in una autobiografia come ha fatto Luciano Spalletti, e prima tutti gli altri che erano dovuti andare via, stropicciati dall’amore, e non conoscevano il demone benniano De Laurentiis come l’hanno conosciuto Spalletti e Conte.

Il primo aveva provato a combattere l’assedio dormendo a Castel Volturno su un divano letto nel suo ufficio, sotto un poster di Maradona. Il secondo ha scelto di vivere nel centro storico di Napoli, ed è riuscito a modulare il suo lamento da conferenza stampa sul lamento della città, un accordo che poteva riuscire solo al maestro Peppe Vessicchio – altro napoletano scappato – che sente i grilli d’estate andare fuori tempo.

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È anche una questione musicale. Di assedio dei sensi. E di corruzione e sovrabbondanza. Se ne accorse Raffaele La Capria, rifugiato a Roma, che distingueva tra gli ossessionati solo dal male di Napoli e quelli colpiti solo dal bene. Ma forse Napoli è solo uno specchio macchiato nel quale tutti i colombi che si guardano si vedono pollastri e per questo scappano.

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