Dopo uno scudetto e un solo anno e mezzo, la partenza del georgiano dal Napoli al Psg ha aperto crepe sentimentali soprattutto nei più giovani: avevano trovato in lui un calciatore selvaggio e bambino. Il tempo degli idoli si consuma sempre più in fretta, nel tempo dei legami fast food. Un principio che potremmo chiamare della divisibilità del campione, niente di nuovo, ma sempre più tragicamente accettato con semplicità da tutti. Senza ribelli alla Gigi Riva
La partenza di Khvicha Kvaratskhelia dal Napoli al Paris Saint-Germain ha aperto crepe sentimentali soprattutto nei ragazzi napoletani perché avevano trovato un calciatore selvaggio che sembrava giocasse le partite importanti come se stesse per strada, e questo atteggiamento li ha subito conquistati. Poi ha anche portato lo scudetto a Napoli. Dribblava e si divertiva e con lui si divertivano i ragazzi che vedevano violate le regole delle scuole calcio.
L’eroe è principalmente uno che sa trasgredire le leggi sbagliate e Kvara in pochissimo è diventato un profeta di trasgressione: dove c’era da passare lui dribblava e dove c’era da dribblare lo faceva due volte, in una andata e ritorno dello stupore, tanto che il suo primo anno è stato tutto di meraviglia: sia per chi lo doveva marcare che per chi lo guardava smarcarsi.
Sembrava un calciatore bambino. Libero e felice ogni volta che aveva il pallone e poteva partire all’assalto degli avversari che non riuscivano a toglierglielo. Guccini si sbagliava: gli eroi non sono tutti giovani e belli, sono tutti bambini, e per questo non ubbidendo non crescono mai o almeno così sembra. Poi Kvara è diventato adulto e si è messo a pensare e si è fatto «’e probblemi» (carico dei pensieri della maturità o presunta tale, agglomerato di responsabilità) come direbbero a Napoli e il suo procuratore ha pensato di risolverglieli con il passaggio a Parigi.
Ovviamente come tutti i bambini è contento di cambiare casa e campo, ma intanto gli è venuta una ruga di tristezza sulla fronte che forse il mare napoletano gli avrebbe lavato, mentre la Senna gliene farà venire un’altra e un’altra ancora con un principio di tristezza in fondo al cuore e soprattutto ai piedi, questo pensano i ragazzini prima di interrogarsi sul perché un tempo il Campione sapeva restare, mettendo radici e accontentandosi.
Il ‘900 di Rombo di Tuono
A questo punto in qualunque conversazione dal Brennero a Lampedusa viene fuori Gigi Riva. E gli altri intorno aggiungono interrogativi: e Rivera? E Facchetti? E Maldini? Fino a Totti, e poi il più pragmatico e adulto che è anche quello che ama meno il calcio e pensa di conoscere di più la vita dice: ma era un altro tempo, e poi vedi che fine ha fatto la loro fedeltà, pausa, e dopo, perfidamente, conclude con: fanno bene quelli di oggi a inseguire i soldi.
A parte che nessuno di questi calciatori è povero, ma è sicuramente risolto perché quando entra in un bar tutti vogliono offrirgli da bere proprio per ringraziarli delle giocate e della felicità, domenicale, almeno prima degli anticipi e posticipi, forse comincia tutto dalla perdita del giorno unico di giocata, chissà, o forse comincia tutto da Luis Figo che lascia il Barcellona per il Real Madrid.
Ma la domanda non è se ne vale la pena, ma è che resta? Perché, novecentescamente, attribuiamo ancora al Campione – la fedeltà è chiesta a chi cambia le partite, a chi decide il destino delle squadre – la stessa decisività anche fuori dal campo e poi – ridicolmente secondo i più – ci spingiamo a chiedergli un’etica, un esempio, una rappresentazione sportiva che sia anche un modello di vita, nell’era dei videogiochi e dei fast food con le ideologie in soffitta e i sentimenti ridotti ad App.
Dentro un videogame
Quindi nel tempo dell’impossibilità apparente pare assurdo uscire dalla ripetizione del videogioco come dalle catene di montaggio. Perché tutto lavora per far scomparire la possibile alternativa. E se è successo anche a Napoli dove, in questi giorni, la maggior parte dei tifosi e no, ragionano sulle cifre e su quello che potranno comprare con 70 milioni, sul nuovo calciatore da consumare amandolo a termine, significa che hanno già masticato e digerito l’idea di Napoli che avevano Pasolini e De Crescenzo, tribù di Gennarielli e città d’amore, riconducendola a essere una qualunque metropoli che guarda alla borsa come un tempo si guardava al mare.
Ma restano i bambini, non ancora conquistati dai soldi, che a istinto riconoscevano a Kvara un ruolo che manca nella loro vita, e di cui gli adulti non sembrano accorgersi. Anche se Kvara non aveva, non ha e non avrà, la capacità e la coscienza di riconoscersi come esempio né di sobbarcarsi il ruolo.
L’utopia
Kvara, suo malgrado, per il suo agire in campo, era il pianeta dell’utopia, piccolo e dribblante, una epifania col pallone che diceva che anche in una squadra di non sceicchi poteva esserci una possibilità di stupore, una occasione di rivincita rispetto all’assolutismo che crescendo incontrano ovunque i bambini.
C'era anche la soddisfazione che un totale sconosciuto all'improvviso si rivelasse proprio a Napoli: la soddisfazione di vedere per la prima volta per una generazione nascere sotto gli occhi il Campione.
C’era in Kvara una possibilità fisica alternativa, che va sempre più svanendo con semplicità, in un processo naturale che naturale non è. Tanto che la maggior parte delle persone non se ne accorge, lo spiega benissimo Pepe Mujica: il capitalismo ruba tutto, principalmente la vita e la possibilità di indirizzarla diversamente.
Lo sport, per un secolo, a volte in combutta, a volte in solitaria, ha fornito elementi di sovversione, possibilità di alternativa, che pure quando sono rimasti effimeri, hanno smosso le coscienze, hanno generato idee, si pensi solo a Muhammad Ali e Diego Maradona.
Perfino a Barcellona
Ma ora non c’è nessuno capace di dire no, come quei no bellissimi, isolati e unici che diceva Gigi Riva alla Juventus. Qualche giorno fa, Lamine Yamal – un altro dribblomaniaco – ha detto una cosa inquietante, anche se voleva suonare come rassicurante: «Spero di restare il più a lungo possibile». Non ha detto voglio restare a vita col Barcellona, come un tempo – anche se pure con compiacimento della pancia e della piazza avrebbe detto un altro calciatore –, ma ha già premesso che tutto lavora per farlo andare via.
Questo principio che potremmo chiamare della divisibilità del campione, che apparentemente sembra democratico, in realtà è la realizzazione massima del campione come merce, niente di nuovo, ma sempre più tragicamente accettato con semplicità da tutti.
In questo caso un ragazzino dice ai suoi coetanei che non c’è speranza che lui resti per tutta la sua carriera al Barcellona anche se è quello che desidererebbe fare. Distruggendo in partenza la sovversione che pratica giocando. Quando ha il pallone potrebbe triangolare e invece dribbla, rischiando tutto: corpo e gambe, ma generando spettacolo, mostrando audacia.
È più difficile, ma lo fa e facendolo aumenta l’amore in chi guarda e anche la sua quotazione. Perché non rischia anche dopo? Quando esce dal campo e quando sta col suo procuratore? Probabilmente perché è addormentato dai soldi o solo perché non ha nessuno che gli fa capire che si può fare, dalla normalità si può anche guarire, dal consueto si può uscire.
Rischiando, s’intende. Ma non conviene. Nessuno lo fa, perché dovrei farlo io? È questo l’unico tatuaggio che tutti i calciatori hanno, anche se non si vede. È quello che hanno scritto tutti sul petto. E nessuno prova a cancellarlo.
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