Ragazze e ragazzi dietro le sbarre del penitenziario romano raccontano le loro giornate che scorrono. Il minorile è come uno spioncino dal quale osservare i fallimenti della società e le famiglie disfunzionali
Nella biblioteca del carcere minorile l’orologio a muro è fermo alle 10.45. Nella stanza dei libri da un anno e mezzo il tempo segna sempre le 10.45. A scuola sarebbe l’ora della ricreazione. La pausa dalle costrizioni dello stare fermi in classe. Qui il carcere stesso è la pausa, ma non dalle costrizioni, di cui invece simboleggia l’immaginario per eccellenza. È l’intervallo tra il prima e il dopo, tra il dentro e il fuori. Qui le merendine non sono nello zaino, ma arrivano con il pacco durante il colloquio con i familiari.
Chi li ha, ovviamente. «Ho chiesto dieci pacchi di Baiocchi», dice Mirko. L’orologio segna sempre la stessa ora, ma per i ragazzi che ho incontrato il tempo in carcere scorre veloce. «Boh, forse per le attività», pensa ad alta voce Alex. «Io ho imparato a fabbricare le lettere di acciaio». «I giorni passano, ma non penso mai al fuori, a quando esco», Mirko storce il naso come se fosse fastidioso il profumo della libertà. Allora forse il significato di questa strana ricreazione delle 10.45 non è quello della pausa, né tanto meno dello svago e del divertimento, ma di una nuova creazione. La detenzione crea individui nuovi? Un adolescente in carcere sta creando un nuovo sé?
Incontro un piccolo gruppo di ragazzi e ragazze in biblioteca per parlare, partendo dai miei romanzi, del sentirsi invisibili e chiedo se a loro è mai capitato. Katia muove lo sguardo tra gli scaffali e senza pensarci troppo risponde: «Da mia madre e mio padre. Non mi hanno vista, mai». Fa una pausa: «Adesso però mi viene da piangere». Da quando è stata arrestata invece è diverso: «Qui preferirei proprio non essere vista. Dai maschi, intendo. Stanno sempre con gli occhi sopra. Li vorrei menare, ma mi devo tenere perché fra una settimana esco libera». Poi pianta lo sguardo in quello di Damian e alza un sopracciglio. Lui raccoglie la sfida e riesce solo a dire: «Risponde lei».
Affida così il suo racconto alla sua educatrice che in un dialogo silenzioso di sguardi riesce a centellinare il pensiero del ragazzo. Fatto di piccole cose: una richiesta inascoltata, un colloquio familiare saltato. Cose che sembrano insignificanti, come il non sentirsi considerato dall’educatrice che in un momento deve dare priorità a un altro detenuto. Invece sono punte di un iceberg, un blocco di ghiaccio enorme, tutto dentro, difficile a sciogliersi. Ci sono cose che non si possono dire perché non si conoscono le parole, e non è solo una questione di lingua; Damian è un ragazzo rom. L’educatrice conosce quelle parole e si fa carico di una trasmissione emozionale. Il tempo adesso si è fermato davvero.
Una vita al contrario
«A me piacciono i manga», Anna la prende da lontano, «perché devi cominciare a leggerli al contrario. Sai quante cose si possono vedere nei disegni?». Forse è così che bisognerebbe leggere questi ragazzi. Al contrario. Dalla loro ultima pagina, il carcere. E da qui tornare indietro verso il prima, l’inizio: la famiglia, il quartiere, la scuola, l’infanzia. Come sfogliando un fumetto giapponese, un flusso visivo in bianco e nero. Eppure, di grigi ce ne sono molti di più di quelli che riusciamo a vedere. Forse Anna con i suoi manga, fatti di immagini senza parole, ci invita a pensare a una nuova grammatica, alla creazione nuova di una regola comunicativa. La ricreazione di un tempo e di uno sguardo che si forma a partire da quello dei ragazzi dentro. I loro occhi sul fuori. Forse per questo Antonio Sangermano, capo del dipartimento della giustizia minorile, ebbe a dirmi che il carcere minorile è lo spioncino attraverso cui vedere le famiglie disfunzionali, il nichilismo della società, i fallimenti dello Stato.
Non essere visti è non avere nessun familiare che ti venga a trovare. O perché vive troppo lontano. O perché proprio non c’è. Una di loro ha solo una zia in Sardegna: «Mi manda roba. Prima avevo la fissa del pancarré e mi facevo mandare sette pacchi di pancarré. Poi ho avuto la fissa dei Baiocchi e mi facevo mandare quindici pacchi di Baiocchi al mese». Il sentirsi considerati passa allora in un pacco di merendine, fatte in serie, ma qualcuno si è preso il tempo per comprarle e spedirle. Magari con un bigliettino dentro scritto a mano. Essere visti è quando in carcere ti fanno notare che sei diventata più alta: «Tutti mi dicono che da quando mi hanno arrestata sono cresciuta in altezza», la ragazza si mette in piedi, drizza la schiena. «L’assistente che lavora in magazzino mi conosce dal mio primo ingresso. C’era la prima volta che sono entrata, mi ha perquisito quando sono arrivata. Lei mi ha detto che sono più alta. Ho preso un centimetro».
Uscire liberi
«Sul sentirsi non visti ha scritto qualcosa di interessante Banana Yoshimoto», esordisce Marg, mettendo tra la mia domanda e il suo vissuto lo scudo della conoscenza. «Mi piace Dosto, soprattutto I fratelli e I demoni», continua allungando le maniche del maglione, le gambe magre incrociate, gli stivaletti slacciati. «Ho sempre voluto fare l’attrice, ma poi mi hanno arrestata ed è finito tutto». Katia ritorna su un punto per essere sicura che io l’abbia ascoltata o forse per convincere se stessa: «Fra una settimana esco libera». Uscire libera. Le ragazze di 17 anni escono e basta. Una detenuta di 17 anni, quando esce, esce libera. E forse non c’è risposta più complessa di questa al sentirsi invisibili: continuerà a non essere guardata dalla famiglia? Verrà vista per sempre dalla società come una che si è fatta il carcere? «E non sei contenta che esci?», le domando. «Boh, sì», fa una smorfia con le labbra come se d’improvviso le fosse arrivato qualcosa di amaro in bocca: «Non so più com’è la vita fuori». Ma su questo Marg la rassicura: «Ti riabitui subito alle cose belle. Come quando ci hanno messo la tavoletta sul water e poi ce l’hanno tolta».
Vedere gli altri andar via
Nel cortile è arrivata la luce livida del tramonto. Marg e Katia si fanno accendere una sigaretta. Katia sputa lentamente il fumo in faccia a un ragazzo che si è avvicinato per chiederle di che quartiere è, quando esce libera: «Roma. Fattela bastare». «Qui dentro ci sono storie d’amore incredibili», Marg sorride tremando per il freddo. «Lettere d’amore clandestine, sguardi da lontano, qualche bacino», Katia strizza un occhio: «La storia più lunga è durata tre settimane».
«Aspetta, è in corso una scarcerazione!», Marg butta la cicca e tutti corrono verso la fila di cipressi tra cui spunta un ragazzo magrebino. Fuma una sigaretta nervosa. Ha in una mano una shopper plastificata. Tutta la sua detenzione è in una busta. Lo sguardo gli trema, agitato, smarrito. Gli altri lo abbracciano. Lui li lascia fare. «Quando scarcerano qualcuno, si piange con un occhio solo», dice Marg. Si è contenti per chi esce, ma piomba un’angoscia pesante su chi rimane dentro. «La prima volta che ho visto una scarcerazione», continua, «ho pensato che non ce l’avrei fatta a vedere tutti andar via». Marg ha una pena lunga, molto lunga. «Poi ho iniziato a scrivere racconti e anche lettere da mandare fuori. Mi piace il gesto della scrittura». E fa il pugno con la mano che si torce e incide: «Quanti anni devo passare a vedere gli altri che escono e io che resto?»
Forse per questo, l’orologio, nessuno lo ha mai aggiustato. Per indicare la relatività del tempo. Solo due volte al giorno quell’orologio segna l’ora giusta. Per il resto i ragazzi si sentiranno sempre in ritardo o in anticipo. In ritardo rispetto a chi è fuori e in anticipo rispetto alle tappe della vita. Quell’orologio fermo sulle 10.45 invita i ragazzi e le ragazze a dilatare quell’istante dell’ora giusta, entrare dentro il tempo e succhiarne gli anni, i mesi, le settimane, i minuti, i secondi. Prenderselo tutto, quel tempo, farlo loro, renderlo giusto, crearselo nuovo. È questa la loro ricreazione.
(2 – continua)
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