Una lettera e alcune testimonianze fanno emergere nuovi dettagli sui fatti del carcere di Modena dell’8 marzo 2020, quando nel corso di una rivolta morirono nove detenuti, alcuni nelle celle, altri durante e dopo i trasferimenti. Questo mentre nelle prossime settimane verrà presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo contro l’archiviazione del fascicolo sui decessi.

La nuova lettera

Un detenuto che sarebbe stato presente nelle fasi più concitate della rivolta ha inviato nei giorni scorsi una lettera al garante nazionale dei detenuti Mauro Palma per raccontare la sua versione dei fatti. Nella missiva parla della «più grande macelleria che ho visto nella mia vita», riferendosi tanto al carcere emiliano quanto a quello di Ascoli, dove sarebbe stato trasferito nelle ore successive ai disordini.

«Siamo stati ammazzati di botte», scrive, «ho visto la gente morire davanti ai miei occhi. Da Modena ad Ascoli lo stesso». Lamenta dolori al braccio e problemi alla gola da ormai un anno e mezzo, a seguito delle violenze che avrebbe subito in prima persona.

«Mi hanno messo vicino al muro con la testa in giù. Spogliato tutto nudo, davanti alla gente, picchiato con pugni e calci. Mi hanno tenuto con il manganello alla gola. Sputavo sangue dalla bocca». Una versione che coincide con quella emersa dalle lettere di altri carcerati in questi mesi.

Il detenuto parla di un “massacro” e denuncia anche le difficoltà nel carcere di Ascoli, dove «siamo stati senza vestiti e senza scarpe, mangiavamo panini duri come sassi, facevamo la doccia con l’acqua sporca, quando andavi a telefonare ti staccavano la linea». In tutto questo, non gli sarebbero mai stati restituiti gli effetti personali dopo il trasferimento, come la patente, la carta di credito e diversi oggetti di valore.

Il racconto di una madre

A questo racconto si aggiunge quello di Annamaria Cipriani, madre di Claudio, uno dei detenuti presenti nel carcere di Modena il giorno dei disordini, che ripercorre tramite le parole del figlio quei momenti. 

«Lui e i suoi compagni non c'entrano con la rivolta, quando hanno visto il fumo hanno cercato di mettersi in salvo aiutando anche donne detenute e infermieri a farlo. Sono riusciti ad arrivare all’esterno e qui sono stati presi di forza e portati in un altro edificio. È arrivata una squadriglia, li hanno fatti spogliare e li hanno picchiati», racconta la donna.

«A mezzanotte li hanno caricati su un mezzo della polizia, scalzi con maglietta e mutande. Qui sono continuati insulti, minacce e botte. Arrivati ad Ascoli, mio figlio mi ha raccontato che si è presentata una squadra di una decina di persone incappucciate e gliele hanno date di brutto. Non crede fossero persone del carcere, forse erano figure esterne».

A vivere quei momenti con Claudio Cipriani c’era Salvatore Piscitelli, deceduto nel giro di poche ore una volta arrivato ad Ascoli. Una morte su cui proprio Cipriani e altri quattro detenuti hanno presentato due esposti in procura nei mesi scorsi per denunciare le violenze e i mancati soccorsi.

Da lì la loro vita penitenziaria si sarebbe trasformata, vittime secondo la donna di una vendetta. «Mio figlio ha grossi problemi alla prostata, a giugno il medico l’ha messo in urgenza per un’ecografia perché potrebbe avere un tumore. Finora però non gli è stato permesso di fare alcuna visita specialistica», spiega.

«Non riesce a leggere per problemi di vista, dalla scorsa primavera chiede una visita oculistica ma non gli permettono di farla e di avere degli occhiali. Vorrebbe anche tornare a frequentare l'università, ha fatto quattro appelli per iscriversi dal carcere e glieli hanno rifiutati. Niente università, niente visite mediche, niente incontri con la famiglia: lui e gli altri dell’esposto stanno subendo una ritorsione».

Solo qualche giorno fa la donna è riuscita per la prima volta in un anno e mezzo a fare visita al figlio, oggi nel carcere di Parma. Denuncia un atteggiamento ostile da parte degli agenti, anche in quell’occasione: «Si è avvicinata la Digos per chiedere chi fossimo andati a trovare, non volevamo dirlo ma insistevano. Alla fine si è avvicinato un ispettore e ha risposto che eravamo andati dal “capo delle olive ascolane", a dimostrazione di come ci sia una particolare attenzione su mio figlio e sugli altri detenuti dell’esposto. A uno di loro qualche tempo fa hanno persino offerto un lavoro in biblioteca a condizione che ritirasse la sua firma dal documento».

Il ricorso alla Cedu

Mentre emergono sempre nuovi dettagli e storie, a giugno l’inchiesta sui decessi (tranne quello di Salvatore Piscitelli) è stata archiviata. Questo nonostante siano emersi molti dubbi e contraddizioni al riguardo, tra orari che non combaciano, referti medici discordanti che certificano in alcuni casi i traumi sui corpi, mancate autopsie, confusione nei soccorsi e testimoni mai sentiti, come ha approfondito anche la giornalista Lorenza Pleuteri in un’inchiesta su Osservatorio Diritti.

In estate è stato aperto dalla procura di Modena un nuovo fascicolo contro ignoti per il reato di tortura, ma le famiglie delle vittime e i loro legali non ci stanno che l’altra inchiesta finisca nel cassetto e soprattutto che sia considerata slegata da quella sulle presunte violenze.

L’avvocato Luca Sebastiani, che difende i parenti di due detenuti morti quell’8 marzo 2020, ha allora sottoscritto un ricorso, predisposto anche dal professor Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale, che nelle prossime settimane sarà presentato alla Corte europea dei diritti dell'uomo.

L’obiettivo è che vengano riaperte le indagini sui decessi, sperando anche che si sblocchi il grande problema di Modena, quello relativo alle telecamere.

La versione ufficiale è che la rivolta e il blackout abbiano bloccato le riprese, con i video andati persi. Un elemento che non convince, anche per alcune contraddizioni nella documentazione del carcere in cui si fa riferimento all’esistenza di immagini quantomeno nelle fasi iniziali dei disordini.

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