Ormai più di due anni fa scoppiava la pandemia e fu chiaro fin da subito che le carceri sarebbero state un luogo dove la gestione dell’emergenza avrebbe costituito una sfida improba. Le rivolte di quei primi giorni con il loro carico di morti ne furono la prima e più drammatica tangibile prova: una situazione che non aveva precedenti nei decenni precedenti e che ancora pone inquietanti interrogativi.

L’ansia che invadeva la società esterna raddoppiava all’interno di quelle mura sia per la situazione in sé della privazione della libertà, sia perché regole igieniche e di distanziamento che venivano raccomandate non potevano trovare applicazione in carcere perché si sommavano ad altre criticità, prima fra tutte l’affollamento che da sempre grava sugli Istituti del nostro paese.

Le misure di libertà

In poco tempo vennero prese alcune misure, di buon senso sebbene molto limitate, per diminuire la popolazione carceraria: l’estensione del numero e della durata dei permessi premio per tutte quelle persone che già ne usufruivano, una timida nuova possibilità di detenzione domiciliare, subito attaccata come troppo lassista, il prolungamento senza limite delle licenze per i semiliberi.

Questi ultimi, infatti, avrebbero dovuto passare la giornata fuori e rientrare in carcere alla sera, moltiplicando le possibilità di ingresso del virus negli istituti. Sono attualmente 982, tra essi 31 donne: la licenza prolungata permette loro di rimanere a dormire a casa, fuori dal perimetro detentivo. Attualmente ne usufruiscono in 800.

Di pari passo con le proroghe dello stato di emergenza nel Paese, questi benefici pensati come transitori si sono di fatto trasformati in un riuscito esperimento di reinserimento a lungo termine. L’ultimo rinnovo ha spostato dal 31 marzo al 31 dicembre 2022 il termine ultimo di questi benefici, grazie a un emendamento nel decreto Milleproroghe.

Per quella data saranno quasi tre anni di sperimentazione de facto. Il dato rilevante di questa esperienza è che nessuno o pochissimi tra i beneficiari hanno compiuto atti che i magistrati di sorveglianza hanno ritenuto tali da dover interromperne il prosieguo, rinviandoli in carcere.

Il principio costituzionale che fonda la finalità delle pene ha la sua centralità nella rieducazione del condannato e nel caso della pena detentiva nella positiva reintegrazione della persona detenuta nella società. Ora, quale miglior prova di reinserimento di saper rispettare impegni fissati dai giudici nella quotidianità di studio, lavoro o quant’altro per un periodo lungo come possono essere tre anni?

Esperienza da ripetere

Tre anni di norme stringenti anche fuori dal carcere che hanno messo alla prova tutti noi e che non sono state violate da coloro che tuttora sono in permesso o in licenza da semiliberi o detenuti nel proprio domicilio.  

Va avviata una riflessione sulla condizione di queste persone, in particolare degli 800 semiliberi che, dopo più di mille giorni di sostanziale libertà e di progressi fatti, potrebbero retrocedere al punto di partenza, tornando a varcare le soglie degli istituti penitenziari di provenienza. L’azzeramento della loro esperienza sarebbe un fallimento del sistema detentivo nel suo insieme.

Quale strumento mettere in campo per dare il giusto valore a questa esperienza? La liberazione condizionale prevede dei limiti relativi alla quantità di pena scontata, forse non da tutti soddisfatti al primo gennaio 2023, pur essendo in alcuni casi persone anche in là con gli anni, per le quali sarebbe insensato far perdere tre anni di progressivo adeguamento al mondo esterno. Ma anche altre misure potrebbero essere utili, come per esempio un agevolato affidamento in prova ai servizi sociali. Altre ancora possono e devono essere pensate.

Del resto anche per tutti gli altri che non hanno usufruito delle misure a suo tempo adottate, perché non erano nei limiti previsti o perché non erano stati valutati come meritevoli, una forma di riconoscimento della maggiore afflittività della pena detentiva vissuta nel periodo della pandemia dovrebbe essere doverosa e portare alla previsione di una misura di compensazione. Un altro capitolo importante per l’uscita da questo difficile periodo vissuto all’interno di quei corridoi divenuti vuoti e muti.

Non si tratta di ragionare in termini di una sorta di atto di clemenza generalizzato, che richiederebbe procedure quasi impercorribili nell’attuale panorama politico, bensì di far leva sul senso di giustizia e sulla sua effettività, nel solco che la nostra Carta indica per dare significato e ragione a ogni pena.

Occorre, quindi, mettere in campo sin da ora una sensibilità che aiuti ad avviare un percorso virtuoso, nella consapevolezza delle molteplici finalità del non rientro di coloro che sono stati positivamente fuori in questo periodo: non aggravare l’affollamento negli istituti, prendere atto di come la realtà vissuta possa essere di per sé elemento valutativo per un beneficio e, inoltre, essere di riconoscimento e stimolo per tutti quei detenuti che ogni giorno fanno un passo nel difficile cammino del reinserimento nella società.

*Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale

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