«Presidente, bisogna vedere e oggi abbiamo visto insieme, dobbiamo trasformare la reazione ai fatti accaduti in un'occasione per far voltare pagina al mondo del carcere», dice la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che ha visitato il carcere di Santa Maria Capua Vetere insieme al presidente del Consiglio, Mario Draghi. Il tour conoscitivo nell'istituto del pestaggio di stato si chiude con la condanna delle violenze, la denuncia del sovraffollamento, la necessità di pene alternative e altre osservazioni generali che avrebbe potuto fare anche in assenza della mattanza. Un magro epilogo per un evento preparato in ogni dettaglio.

Il carcere profumato

La strada che conduce al penitenziario è lastricata non di buoni propositi, ma di buche. Prima dell'ingresso, sulla sinistra, svetta l'impianto di trattamento dei rifiuti che porta sciami di zanzare e un lezzo insopportabile quando si alza il vento. Sulla destra c'è la superstrada che costeggia il muro con il filo spinato, dietro una discarica di pattume. Dentro il carcere l'acqua non c'è, perché non c'è mai stata la rete idrica. «Ogni anno promettono l'avvio di una gara di appalto, ma poi non cambia niente», dice Pietro Ioia, garante dei detenuti di Napoli e conferimento delle prime denunce da parte dei familiari dopo il pestaggio di massa del 6 aprile del 2020.

All'esterno dell'istituto un cartello recita “rilascio colloqui”, un accesso apre le porte del carcere ai familiari che vengono a trovare i detenuti. Poco prima dell'arrivo di Draghi, dall'istituto esce un bambino di due anni, occhi azzurri. Ha lo sguardo smarrito. «Lo dovevo portare, deve continuare a incontrare il suo papà. Noi abbiamo visto le immagini delle violenze, chi deve esercitare la legge non la può infrangere. Mio marito deve pagare, ma lui e gli altri detenuti non sono bestie, meritano il carcere, non le mazzate», dice la signora mentre stringe il bimbo tra le braccia.

Nelle parole di chi attende i colloqui c'è lo stupore per quelle immagini e la paura che nessuno paghi. Il 6 aprile dello scorso anno 300 agenti della penitenziaria sono entrati in carcere, molti muniti di casco e non identificabili, e hanno massacrato di botte, per oltre quattro ore, i detenuti del reparto Nilo, che ospita per buona parte tossicodipendenti e anche una sezione di pazienti con problemi di salute mentale.

«Questa mattina abbiamo assistito un detenuto con disturbi psichiatrici che aveva avuto un attacco, non dovrebbe stare in carcere, ma in una struttura dedicata. Alla ministra vorrei parlare del sovraffollamento, delle strutture fatiscenti, della penuria di personale di supporto: educatori e psichiatri», dice Emanuela Belcuore, garante dei detenuti di Caserta che non è stata invitata alla visita del governo. Per l'occasione l'istituto è stato tirato a lucido. Il carcere profumato, hanno lavato pavimenti, pulito i parti, abbellito il giardino. «L'istituto di pena sembra un villaggio turistico, lindo e pinto, per il grande evento. I problemi c'erano ieri e ricominciano domani», continua Belcuore.

Il tour senza domande

Il presidente del Consiglio e la ministra arrivano a metà pomeriggio. Il governo ha così scelto di andare a vedere il carcere prima di riferire in parlamento sulle violenze. L’evento è stato curato nei dettagli. A partire dal tenore comunicativo, ispirato a una regola aurea dichiarata fin dall’inizio: nessuna domanda. I cronisti vengono catechizzati preventivamente al telefono. «Alla fine non ci sarà spazio per quesiti, ma solo per comunicazioni del presidente e della ministra», chiariscono gli uffici stampa.

E le domande? «Oggi è la giornata dell’ascolto», rispondono. Non vogliono sbavature, polemiche, spettacolarizzazioni salviniane. Il canovaccio è scritto per evitare sorprese e prevede, per il finale, annunci importanti della ministra. La stampa viene sistemata sotto gazebo da campeggio a 15 metri dal palchetto dove parlano i rappresentanti del governo. Mentre i cronisti aspettano, compostamente seduti, vengono inseriti in due gruppi WhatsApp che informano dell’arrivo del presidente del Consiglio.

Quando inizia la visita all’istituto dai gazebo si sente qualche applauso e le urla dei detenuti. «Fuori, fuori», gridano, e poi «Draghi, Draghi», ma non è possibile avvicinarsi. Il presidente e la ministra entrano anche nel reparto Nilo, il teatro dell’orribile mattanza. I detenuti dalle celle chiedono pene alternative, gli agenti penitenziari di non processare l’intero corpo. La visita dura circa un’ora, poi ministra e presidente escono per le attese comunicazioni.

Sei file di sedie sono riservate a garanti e funzionari del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che ha aspettato i video e le misure cautelari per avviare un’ispezione interna. La presentazione delle autorità spetta alla direttrice dell’istituto, Elisabetta Palmieri, che sale sul palco e parla di speranza e di «giornata speciale». È la stessa direttrice che non c’era il giorno del pestaggio, che non è indagata ma ha continuato a difendere la catena di comando, a credere alla tesi dei depistatori e a dire di Lamine Hakimi che «era strafatto». Lamine è morto dopo il pestaggio, che è stato seguito da un periodo di isolamento ingiustificato e accompagnato dall’assunzione di un mix di oppiacei.

Ma lo scorso ottobre la direttrice ha raccontato a Domani un’altra storia, evocando «bastoni e olio bollente» usati dai detenuti contro gli agenti. I bastoni e l’olio erano soltanto false prove costruite per giustificare la spedizione punitiva. Palmieri lascia la parola a Draghi e poi a Cartabia. Finite le comunicazioni i giornalisti provano ad avvicinarci, ma un cordone di sicurezza proibisce ogni tipo di contatto. Cosa ne pensa il governo dell’introduzione del codice identificativo? Perché non ha riferito in parlamento? E perché nulla è stato fatto prima degli arresti disposti dal giudice? Ancora una volta il governo ha scelto di non rispondere.

 

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