È la settimana nazionale della celiachia, si stima che l’1% della popolazione ne sia affetto, anche se più della metà non ne è consapevole. Mentre il mercato del gluten free continua a crescere, nonostante i prezzi dei prodotti. Il 21% degli italiani consuma regolarmente prodotti gluten-free, pur non avendo ricevuto una diagnosi medica
La celiachia non è una moda alimentare, un capriccio né una scelta “salutista” per dimagrire. La celiachia è una malattia autoimmune cronica che, secondo gli ultimi dati del ministero della Salute, riguarda circa 265.000 persone diagnosticate in Italia, di cui il 70% sono donne.
Ma la realtà è ancora più estesa: si stima che circa l’1% della popolazione – oltre 600.000 persone – sia affetto dalla patologia, anche se più della metà non ne è consapevole. Per sensibilizzare sull’argomento l’Associazione italiana celiachia (Aic) promuove la settimana nazionale della celiachia, che quest’anno si conclude domenica 18 maggio.
Secondo l’ultima Relazione annuale sulla celiachia (2023), la regione con la più alta incidenza è la Lombardia, con quasi il 19% dei casi, seguita da Lazio (10,1%) e Campania (9,5%).
Per i celiaci, ogni giorno è una corsa a ostacoli: l’unica terapia efficace è l’eliminazione totale del glutine, ovunque e per sempre. Nessuna cura farmacologica, nessuna tregua: solo una dieta che dura tutta la vita.
Il prezzo del gluten free
Nel frattempo, il mercato del gluten-free in Italia continua a crescere, sfiorando i 400 milioni di euro annui, alimentato anche da chi sceglie di eliminare il glutine pur non avendone reale necessità. È diventato il capro espiatorio ideale: invisibile, sospetto, facilmente sacrificabile. Ma a caro prezzo.
Secondo un’indagine del Centro di formazione e ricerca sui consumi (Crc) con Assoutenti, i prodotti senza glutine costano in media il 73% in più rispetto a quelli tradizionali. In alcuni casi, il rincaro è enorme: le fette biscottate costano il 257% in più, la pasta il 110%.
Nel 2023, il Servizio sanitario nazionale ha speso circa 250 milioni di euro per garantire l’accesso ai prodotti senza glutine ai celiaci, con un’erogazione media di 942 euro l’anno per paziente. Ma il buono mensile – tra 56 e 124 euro, a seconda di età e sesso – copre solo una parte del fabbisogno. Chi è celiaco paga il resto.
L’offerta si moltiplica, rincorrendo una domanda che non accenna a calare. Secondo lo stesso studio, il 21% degli italiani consuma regolarmente prodotti gluten-free, pur non avendo ricevuto una diagnosi medica. Questa scelta alimenta un'industria in cui, talvolta, le dinamiche di marketing sembrano avere un'influenza maggiore rispetto alle evidenze scientifiche, con conseguenti ricadute economiche e culturali.
«Solo in caso di celiachia accertata – spiega il dottor Gabriele Bernardini, biologo nutrizionista – l’eliminazione totale del glutine è necessaria, poiché si tratta di una risposta autoimmune che danneggia la mucosa intestinale. In presenza di una vera allergia al grano, invece, sono coinvolte proteine diverse dal glutine: in questi casi è necessario eliminare il grano, non altri prodotti, e il glutine si può mangiare. Esiste anche la cosiddetta sensibilità al glutine non celiaca, una condizione dai contorni clinici incerti che può provocare sintomi gastrointestinali o extraintestinali. Tuttavia, mancano marcatori diagnostici specifici e spesso la causa dei sintomi non è il glutine, ma altre sostanze come i Fodmap. In ogni caso, si tratta di condizioni non così diffuse da giustificare l’abolizione indiscriminata del glutine a cui assistiamo oggi».
«Nei soggetti senza patologie accertate – sottolinea il dottor Bernardini – eliminare il glutine non comporta benefici provati e si rischia di ridurre l’apporto di fibre, vitamine del gruppo B, ferro, zinco e altri micronutrienti essenziali».
Falsi miti e fake news
Non è raro sfogliare le pagine social e imbattersi nell'idea che eliminare questa proteina dalla dieta possa risolvere vari problemi di salute. Tuttavia, è fondamentale sottolineare che questa convinzione non sempre trova supporto nelle evidenze scientifiche. «Sono sicuramente più responsabili coloro che fanno disinformazione sui social e nei media in generale – aggiunge il dottor Bernardini – piuttosto che il marketing dei prodotti alimentari. In quest’ultimo caso, la normativa obbliga l’indicazione “senza glutine” per i celiaci. Difficilmente si troverà un claim che inviti a non assumere glutine per motivi extra-celiachia».
La crescente diffusione di diete prive di glutine tra chi non presenta una diagnosi clinica riflette una tendenza culturale più ampia, supportata anche da diverse voci nel panorama della comunicazione nutrizionale. In questo contesto, il dottor Gabriele Bernardini osserva: «C’è tutto un filone narrativo legato (erroneamente) al fantomatico danno delle diete che contengono cereali e legumi, che vengono raccontate come dannose, favorendo invece alimentazioni ricche di carni e grassi animali. In questa narrazione viene inserito anche il glutine, oltre a tante altre sostanze demonizzate come le lectine, per esempio. Nessun documento scientifico nazionale o internazionale suggerisce questo tipo di alimentazione carnivora, ma sui social queste diete purtroppo trovano molto spazio».
Parlare di “senza glutine” in modo generico rischia di fare danni. Per chi convive con la celiachia, non si tratta di una moda alimentare né di una scelta leggera, ma di una condizione clinica che impone rigore quotidiano, attenzione maniacale alle etichette e spesso costi ingiustificatamente alti. Banalizzarla significa non porre l’attenzione su chi lotta ogni giorno per mangiare in sicurezza, in una realtà dove la consapevolezza cresce a rilento e la differenza tra necessità e tendenza fatica ancora a imporsi.
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