Un paese membro dell’Unione europea «può designare paesi d’origine sicuri mediante un atto legislativo, a condizione che quest’ultimo possa essere oggetto di un controllo giurisdizionale effettivo», in grado di verificare il «rispetto dei criteri sostanziali stabilite dal diritto dell’Unione». Un controllo che «deve vertere sul rispetto delle condizioni sostanziali di siffatta designazione enunciate all’allegato I a tale direttiva, in particolare quando un ricorso sia presentato avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale in esito alla procedura accelerata applicabile ai cittadini di paesi terzi così designati».

La Corte di giustizia dell’Unione europea ha pubblicato venerdì 1 agosto il dispositivo della sentenza, tanto attesa, sul concetto di paese di origine sicuro, che potrebbe condizionare, almeno in base alla legislazione europea vigente, l’attuazione del protocollo in materia migratoria siglato tra Italia e Albania, nel novembre 2023. 

La sentenza

I due casi esaminati dai giudici europei erano stati rinviati dalla sezione specializzata del tribunale di Roma. Il rinvio pregiudiziale conteneva quattro quesiti, con cui i magistrati capitolini hanno chiesto la compatibilità delle norme interne con il diritto comunitario. 

La Corte di Lussemburgo ha inoltre stabilito che «le fonti di informazione su cui si fonda tale designazione devono essere accessibili al richiedente e al giudice nazionale». La prescrizione di rendere le fonti accessibili «mira a garantire una tutela giurisdizionale effettiva, consentendo al richiedente di difendere efficacemente i suoi diritti e al giudice nazionale di esercitare pienamente il proprio sindacato giurisdizionale».

Uno stato non può però – proseguono i giudici Ue – essere incluso «nell’elenco dei paesi di origine sicuri qualora esso non offra una protezione sufficiente a tutta la sua popolazione». Questo, si legge nella pronuncia, varrà finché non entrerà in vigore il nuovo regolamento previsto dal nuovo Patto Ue sulla migrazione e asilo il 12 giugno 2026, che al contrario «consente di prevedere eccezioni per tali categorie di persone chiaramente identificabili».  

I giudici europei ricordano che in base alla direttiva 32 del 2013 «gli stati membri possono accelerare l’esame delle domande di protezione internazionale», qualora si ritiene che i cittadini stranieri provengano da stati «che si ritiene offrano una protezione sufficiente». L’Italia, come altri paesi membri, ha stilato un elenco, che fino a ottobre 2024 era contenuto in un decreto ministeriale. Con le prime decisioni dei giudici di Roma di non convalidare i trattenimenti nei centri albanesi, il governo ha modificato la natura della norma, inserendola in un decreto legge poi convertito. Nella lista sono compresi 19 paesi, prima erano 22: cancellati dagli stati sicuri Colombia, Camerun e Nigeria. È invece rimasto il Bangladesh, nazionalità dei due cittadini il cui caso è arrivato a Lussemburgo. 

Provenire da un paese di origine sicuro significa essere sottoposto alle procedure accelerate di frontiera. Significa avere meno garanzie, tempi ristretti e una buona possibilità che la propria domanda di asilo venga rigettata perché, secondo le valutazioni governative, la situazione del paese sarebbe tale da presumere che le richieste di protezione internazionale non siano fondate. Nel documento della Corte si legge anche che «il nuovo regolamento, che consente di prevedere eccezioni (alla norma sui paesi sicuri, ndr) per tali categorie di persone chiaramente identificabili, entrerà in vigore il 12 giugno 2026, ma il legislatore dell'Unione può anticipare questa data».

I ricorsi

La sezione di Roma, nel rinvio, chiede alla Corte se l’elenco dei paesi considerati sicuri può essere contenuta in un atto legislativo; se il giudice ha la possibilità di operare una valutazione nel caso concreto; sostiene poi che nel decreto legge dell’ottobre 2024 non siano precisate le fonti sulla base delle quali il governo ha valutato la sicurezza del paese. E, quindi, il richiedente asilo e l’autorità giudiziaria – sostiene il tribunale italiano – «si troverebbero privati della possibilità, rispettivamente, di contestare e controllare la legittimità della presunzione di sicurezza, esaminando in particolare la provenienza, l’autorità, l’affidabilità, la pertinenza, l’attualità e l’esaustività di tali fonti». E, infine, se può essere definito sicuro un paese che non presenta tali garanzie per la totalità della popolazione.

La risposta di Chigi

«Sorprende la decisione della Corte di Giustizia Ue in merito ai Paesi sicuri di provenienza dei migranti illegali. Ancora una volta la giurisdizione, questa volta europea, rivendica spazi che non le competono, a fronte di responsabilità che sono politiche» fa sapere palazzo Chigi replicando alla decisione. «La Corte di Giustizia Ue decide di consegnare a un qualsivoglia giudice nazionale la decisione non sui singoli casi, bensì sulla parte della politica migratoria relativa alla disciplina dei rimpatri e delle espulsioni degli irregolari».

Per Meloni, addirittura, «la decisione della Corte indebolisce le politiche di contrasto all’immigrazione illegale di massa e di difesa dei confini nazionali». E il governo polemizza perfino sulle tempistiche: «È singolare che ciò avvenga pochi mesi prima della entrata in vigore del Patto Ue su immigrazione e asilo, contenente regole più stringenti, anche quanto ai criteri di individuazione di quei Paesi».

L’anm

Anche l’associazione nazionale magistrati ha reagito alla pronuncia della corte sovraordinata, sottolineando come la decisione confermi «in modo inequivocabile la correttezza dell’interpretazione fornita dai giudici italiani, più volte oggetto, in questi mesi, di pesanti attacchi pubblici per l’esercizio della loro funzione. I giudici non fanno le leggi, ma le applicano in modo attento e scrupoloso e, come confermato dalla Corte di giustizia Ue, devono poter esercitare un sindacato pieno e indipendente sul rispetto dei diritti fondamentali».

La giunta esecutiva centrale ricorda che «i magistrati italiani hanno fatto in questi mesi quello che la legge imponeva loro, nonostante i frequenti e brutali attacchi ricevuti da una parte della politica. La sentenza di oggi lo conferma».

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