Il 29 agosto del 1944 sfilavano per il centro di Marsiglia le unità della resistenza che avevano appena contribuito a liberare la città. Ad aprire la parata c’erano i componenti della Compagnia Marat; si trattava di un’unità comandata dal rumeno Mihail Florescu e in larga parte composta da stranieri. Quel giorno a portare la bandiera della Marat, un tricolore francese su cui era stato cucito il nome del celebre rivoluzionario, era l’albanese Veli Dedi. Alla sfilata non poterono partecipare lo jugoslavo Dimitri Koturovic, caduto in combattimento nell’aprile precedente, e l’armeno Sarkis Bedoukian, colpito a morte poche ora prima durante la battaglia decisiva per liberare la città.

LA RESISTENZA IN ALBANIA

Pochi mesi dopo si produsse una scena analoga dall’altra parte del continente europeo. Il 17 novembre la resistenza albanese aveva liberato Tirana e anche in quel caso si organizzò una parata per celebrare l’evento. Come a Marsiglia, anche a Tirana sfilarono alcuni combattenti stranieri. Si trattava degli italiani del Battaglione Gramsci, che sventolavano un tricolore italiano e la bandiera albanese.

In una foto scattata quel giorno gli italiani sono in posa con l’uomo che pochi mesi prima e dopo lo sbandamento dell’esercito italiano successivo all’8 settembre li aveva convinti a passare dalla parte dei resistenti albanesi, Mehmet Shehu. In totale avevano combattuto al fianco dei partigiani albanesi circa 2mila italiani, di cui più di 500 furono integrati nelle brigate partigiane già esistenti. I caduti furono una settantina.

LE RESISTENZE CONTRO I FASCISMI

I due esempi appena citati ci parlano di un fenomeno più diffuso di quanto si potrebbe pensare: furono infatti decine di migliaia gli europei e le europee che si trovarono a combattere nei ranghi dei movimenti di resistenza lontani dal proprio paese d’origine. La loro scelta di prendere le armi era legata alla consapevolezza che quello dei fascismi era un problema continentale e che, in quanto tale, poteva essere combattuto ovunque.

Le storie di questi uomini e di queste donne sono però rimaste ai margini di memorie e narrazioni sedimentatesi su scala nazionale. Le resistenze sono state infatti generalmente presentate, soprattutto per valutazioni d’ordine politico, come dei fenomeni endogeni a ciascun stato europeo. Gli italiani avrebbero cioè combattuto per la liberazione dell’Italia, i francesi per quella della Francia, i polacchi per quella della Polonia e così via.  Secondo tale prospettiva le resistenze contro le occupazioni nazifasciste sarebbero state dei fenomeni sincronici, ma indipendenti l’un l’altro. Così non fu, troppo spesso si è ignorato come l’attività di resistenza ad un’occupazione straniera o anche ad un regime autoctono sia generalmente il frutto dell’interconnessione di più piani (locale, nazionale, internazionale e transnazionale).

È stato così in tutti i passaggi della storia novecentesca, e fu così anche nell’Europa della Seconda guerra mondiale. Non ha mai preso veramente campo l’idea che i singoli movimenti di resistenza facessero parte di un unico conflitto internazionale contro i fascismi combattuto in più nazioni. Da dove nasce questa mancanza?

Per comprenderne l’origine si deve tornare al 1945 e all’Europa che provava ad uscire dal Secondo conflitto mondiale, in quel contesto (tanto ad ovest come ad est) erano essenziali dei miti fondativi su cui ricostruire le comunità nazionali e la resistenza declinata su scala nazionale fu uno di questi, forse uno dei più importanti (basti pensare i casi italiano, francese e jugoslavo).

ESULI INTERNI, PRIGIONIERI, DISERTORI

Chi furono i resistenti transazionali? Per provare a capirlo si deve innanzitutto ricordare come l’Europa che era entrata nella Seconda guerra mondiale fosse un continente che veniva da decenni in cui era costantemente aumentato il numero di esuli interni; questi uomini e queste donne che erano scappati da regimi autoritari o fascisti parteciparono spesso con entusiasmo ai movimenti di resistenza nei paesi che li avevano accolti (si trattò di un fenomeno particolarmente rilevante nel caso francese e in quello belga).

Un altro consistente nucleo di resistenti transnazionali venne fornito da quei prigionieri di guerra alleati che furono liberati o riuscirono a fuggire dalle località di internamento rimanendo però bloccati dietro le linee nemiche; molti di questi decisero di aggregarsi alle bande di partigiane locali (questo successe con una certa frequenza nel nostro paese).

Ci furono infine i disertori degli eserciti dell’Asse o coloro che vissero lo sbandamento delle proprie forze armate in territorio nemico. Rispetto a quest’ultima tipologia basterà ricordare la scelta resistente di alcuni dei militari italiani di stanza nei Balcani all’indomani dell’8 settembre 1943, oltre al già citato caso albanese va ricordata anche la costituzione della Divisione partigiana Garibaldi che combatté inquadrata nell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia e che, alla sua costituzione, contava circa 16mila effettivi. Circa un terzo di loro sarebbe caduto durante la lotta.

I REDUCI DI SPAGNA

Infine, per comprendere pienamente la dimensione europea dei movimenti di resistenza si deve fare lo sforzo di pensare a una cronologia più ampia che includa anche la Guerra civile spagnola (1936-39). Mihail Florescu, Veli Dedi, Dimitri Koturovic e Mehmet Shehu, per tornare alle liberazioni di Marsiglia e di Tirana, erano tutti reduci di quel conflitto. In Spagna avevano preso le armi decine di migliaia di antifascisti provenienti da mezzo mondo, gran parte di loro aveva fatto parte delle celebri Brigate Internazionali. Si trattava di combattenti, già da prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, avevano chiaro come quello del fascismo fosse un problema europeo e che dovesse essere combattuto ovunque fosse possibile. «Oggi in Spagna, domani in Italia» aveva del resto dichiarato l’italiano Carlo Rosselli a Radio Barcellona nel novembre del 1936.

A partire dal settembre del 1938 le Brigate internazionali furono ritirate dai fronti e ai loro reduci fu subito chiaro che quella lotta sarebbe proseguita altrove, e così fu. Questi reduci, dopo essere stati costretti in molti casi a passare dalla traumatica esperienza dell’internamento nei campi francesi (esperienza che condivisero con la popolazione spagnola che si era rifugiata in Francia dinnanzi alla vittoria franchista), si sparsero a macchia d’olio in tutto il continente confondendosi, dopo il settembre del 1939, tra i protagonisti dei nuovi movimenti di resistenza. Furono i reduci di Spagna ad addestrare e ad ispirare una nuova generazione di antifascisti europei.

Il polacco Adam Rayski avrebbe ricordato come molti dei suoi commilitoni nella Resistenza francese fossero ebrei reduci di Spagna. Il livornese Ilio Barontini, prima di tornare in Italia e contribuire all’organizzazione dei Gap, ebbe il tempo di addestrare guerriglieri antifascisti in Etiopia e in alcune zone della Francia. Lo spagnolo Domingo Ungría, rifugiatosi in Unione Sovietica dopo la fine della guerra di Spagna, avrebbe invece organizzato e addestrato unità di guerriglieri attive dietro le linee nemiche sul fronte orientale.

Come ha rilevato la storica britannica Helen Graham, i reduci di Spagna erano dei combattenti che incarnavano, molto spesso a loro stessa insaputa, una modernità cosmopolita che sarebbe riemersa con forza con la loro partecipazione al Secondo conflitto mondiale, una modernità cosmopolita che si opponeva radicalmente ai principi di purificazione e di igiene sociale dei fascismi europei, una modernità cosmopolita che avrebbe influenzato la natura stessa dei movimenti della resistenza europea.

Luigi Meneghello, nel suo I piccoli maestri, avrebbe ricordato come il gruppo di giovani partigiani di cui faceva parte andasse spesso a trovare un veterano di Spagna che «grondava di gloria e tristezza» e come i giovani partigiani lo ascoltassero «commossi e riverenti».

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