Sono passati ventun anni da quando arrivai come primo italiano a Kabul e primo comandante del contingente nazionale della missione Isaf, International security assistance force, in Afghanistan. La mia esperienza è iniziata improvvisamente il 15 dicembre 2001, mentre ero in fase di trasferimento per Torino dove avrei dovuto assumere l’incarico di vice comandante e poi di comandante della brigata alpina taurinense, con una telefonata da Roma che mi avrebbe portato nel giro di 24 ore in quel lontano paese.

La conferenza di Bonn

Si trattava di effettuare una ricognizione di alcuni giorni con colleghi delle forze armate straniere che avrebbero partecipato alla missione, per verificare sul terreno con i capi dell’Alleanza del nord, che avevano sconfitto i Talebani con il supporto aereo e delle forze speciali Usa e britanniche, le possibilità di schierare una forza multinazionale a guida iniziale britannica secondo quanto previsto dalla conferenza di Bonn, tenutasi dal 27 novembre al 5 dicembre 2001.

La conferenza, indetta dalle Nazioni Unite per definire lo status post bellico del paese poiché il governo talebano si era dissolto nel novembre precedente, prevedeva l’insediamento di un’amministrazione ad interim che avrebbe dovuto, in un periodo di due anni, indire elezioni democratiche, svoltesi poi nel 2004, e creare le basi per un nuovo Afghanistan.

Alla conferenza furono invitati i leader afghani che si erano opposti ai Talebani (Alleanza del nord, gruppi di Cipro, Roma e Peshawar) ma vennero esclusi i Talebani, grave errore che ha influenzato l’intero processo di pace, non essendo considerati come una parte legittima. Ma la storia insegna che prima o poi la pace si fa con l’avversario.

Arrivai cosi a Bagram, base aerea a circa 60 chilometri a nord di Kabul costruita dai russi negli anni ‘60 e occupata da unità Us e britanniche, di notte con un velivolo C-130 della Raf inglese insieme a un collega.

L’accoglienza dell’Alleanza del nord non fu delle più cordiali: eravamo visti con estrema diffidenza che rasentava l’aperta ostilità. Mohammed Fahim Khan, che aveva assunto la leadership della formazione dopo l’uccisione di Aḥmad Shāh Masʿūd, non gradiva una presenza straniera nella gestione post talebana.

Solo dopo sfibranti colloqui si raggiunse un compromesso nelle dimensioni e nei compiti della missione che diede il via libera all’intervento.

Operazione di peacekeeping

The Associated Press

A seguito di ciò, il consiglio di Sicurezza dell’Onu adottò la risoluzione 1386 del 20 dicembre 2001, decretando il dispiegamento di una limitata forza di peacekeeping nella sola area della capitale, denominata Isaf, che doveva supportare l’autorità ad interim del paese.

A guida del governo venne scelto Hamid Karzai, leader pashtun vicino ai paesi occidentali, anche per i suoi trascorsi negli Stati Uniti, e benvoluto da Washington, almeno inizialmente. 

Sono ritornato pochi giorni dopo, il 28 dicembre, con il nucleo iniziale del contingente per organizzare l’arrivo del grosso delle forze italiane ai primi di gennaio 2002.

Il paese era ancora impaurito dagli anni di regime talebano che aveva rinchiuso la società in una gabbia virtuale fatta di divieti, terribili punizioni e sanguinose repressioni. Gli aiuti umanitari non erano ancora affluiti e la popolazione versava in condizioni di estrema povertà.

A Kabul nelle ore notturne non si vedeva una luce: l’intera capitale era al buio.

L’unica cosa che funzionava bene era la guest house delle Nazioni Unite: un’isola felice in un mare di miseria e privazioni dove solo il personale dell’Onu trovava vitto, alloggio e alcolici.

Con noi viaggiavano l’ambasciatore designato Domenico Giorgi, con la sua scorta, e il sottosegretario di stato per i beni e le attività culturali, Vittorio Sgarbi con il suo numeroso seguito.

Quale sistemazione iniziale utilizzammo la canonica della cappella cattolica, presente nell’ambasciata italiana dal 1930, in virtù del trattato d’amicizia italo afghano del 1921.

Arrivati a Kabul, il problema più urgente era trovare la sistemazione ai 350 soldati che sarebbero atterrati dopo pochi giorni in un periodo caratterizzato da intenso freddo con temperature notturne anche di -25° e per la totale assenza di infrastrutture idonee; infatti tutto era distrutto a causa dei combattimenti tra le fazioni di Mujahidin dopo la caduta nel 1992 del governo comunista di Mohammad Najibullah.

È iniziata così una corsa contro il tempo e gli altri contingenti perché tutti erano alla ricerca di una sistemazione, anche precaria, per alloggiare i reparti in afflusso.

Il nuovo governo afghano, che avrebbe dovuto indicare le infrastrutture rese disponibili, collaborava con lentezza e controvoglia.

L’unica area individuata era un ampio complesso militare in stato di abbandono, di origine sovietica, sito alla periferia orientale della capitale.

Per evitare che gli edifici in migliori condizioni fossero destinati ad altri contingenti, e in assenza di coordinamento, ci impossessammo d’iniziativa di una vasta caserma gialla, chiamata caserma 57, in ossequio al sistema sovietico di numerare le basi, ed esponemmo sulla facciata principale una grande bandiera tricolore.

L’installazione, adibita all’origine a centro di addestramento per truppe corazzate dell’esercito nazionale afgano comunista e che sarebbe divenuta sede del contingente italiano sino al 2009, si presentava in condizioni disastrose, in quanto la sua ultima destinazione era stata luogo di prigionia di centinaia di Talebani, afghani e stranieri, arresisi all’Alleanza del nord.

Una volta insediatici nella caserma, ribattezzata in seguito “Camp invicta”, fu necessario provvedere al suo recupero funzionale, attribuendo priorità alla sicurezza (fossato perimetrale, rafforzamento difese, sminamento terreno, ecc.) e alla sommaria ristrutturazione di una palazzina.

La graduale ripresa

Sono ritornato altre volte in Afghanistan: nel 2003 come comandante della missione Nibbio 1 nell’ambito dell’Operazione statunitense Enduring Freedom, nel 2007 nell’Headquarters Isaf, e nel 2013-2014, quale capo di stato maggiore dell’Hq Isaf, oltre ad altri brevi periodi per esigenze nazionali. Questi soggiorni mi hanno permesso di apprezzare come cambiava il paese e la società.

Gradualmente, con la presenza internazionale, l’Afghanistan aveva iniziato a riprendersi. Nel 2005, l’economia era quasi il doppio di quella del 2001.

La popolazione di Kabul si era quadruplicata, sorgevano nuovi edifici e nei negozi si trovava qualsiasi prodotto; il progresso non era limitato alla capitale: in tutto il paese 1,5 milioni di ragazze andavano a scuola per la prima volta; i telefoni cellulari si erano diffusi a macchia d’olio.

La salute e l’aspettativa di vita erano migliorate. Vi era meno violenza che in un qualsiasi momento dei precedenti 40 anni, e nessuna insurrezione, neanche lontanamente, era paragonabile a quella esplosa in Iraq.

Le vicende recenti

Pur con le evidenti difficoltà di contenere il ritorno dell’insorgenza talebana, le aspettative generali erano positive, malgrado l’improvvida decisione del presidente americano Barack Obama di annunciare pubblicamente il 22 giugno 2011 che a breve sarebbe iniziato il graduale ritiro dei militari statunitensi, in quanto, a suo dire, erano stati raggiunti gli obiettivi dell’intervento.

Il resto è cronaca recente: gli accordi di Doha del 29 febbraio 2020, che hanno di fatto ceduto il paese agli studenti coranici (modello accordi Parigi per il Vietnam del Sud del 1973), l’accelerazione nel ritiro delle ultime migliaia di soldati americani voluta dal presidente Donald Trump e modalità e tempi sbagliati imposti dal presidente Joe Biden.

In questo modo, vent’anni dopo, in un caldo agosto del 2021, sono andati perduti in un attimo tutti i risultati conseguiti con fatica e le conquiste sociali ottenute relative al ruolo delle donne, delle bambine e delle minoranze etniche.

La fuga da Kabul, dopo l’iniziale e quasi morboso interesse mediatico e le forti emozioni suscitate, non desta più molto interesse causa l’aggressione russa all’Ucraina, che ha dato modo di dimenticare la poco onorevole evacuazione occidentale dall’Afghanistan.

Diverse sono le cause che, a mio avviso, hanno portato al ritorno dei Talebani: la classe politica, la presunzione occidentale dell’etnocentrismo, la frammentazione etnica, la droga e la corruzione. Fattori destabilizzanti tra loro strettamente interconnessi, dove la corruzione era l’elemento catalizzatore di questa tragica realtà.

Democratizzazione, strategia fallimentare

 A tutto ciò, si deve aggiungere la mancanza di un disegno politico condiviso nell’impiego dei contingenti militari per il prevalere delle posizioni nazionali.

La classe politica, scelta dalla comunità internazionale tra le élite economiche e intellettuali di formazione cosmopolita, come in Iraq e in Libi, in quanto maggiormente propensa a condividere modelli occidentali, era litigiosa e orientata solo a curare i propri interessi; ma un’élite non è rappresentativa della società, soprattutto quando ha vissuto per anni all’estero.

A questo si associa la presunzione occidentale di dare priorità ai valori della nostra cultura quando si analizzano le altre culture e ritenere di sapere meglio dei locali cosa serva loro in termini di riferimenti politici, sociali ed economici.

Cercare di promuovere dall’esterno la democratizzazione, ignorando che non bastano le istituzioni democratiche per generare democrazia in culture che, qualunque siano i loro meriti, non hanno una società di modello occidentale, ha provocato la caduta di alleati fidati, come lo Shah di Persia o il presidente del Vietnam del sud, Ngo Dinh Diem, e ha agevolato l’instaurazione di regimi ostili e ancora più autoritari.

Pochi paesi al mondo, inoltre, possono vantare una così variegata concentrazione di etnie; un mosaico di almeno 14 gruppi con usi, costumi e mentalità differenti, animati da un forte senso dell’indipendenza e con un tradizionale legame alla tribù, al clan, al villaggio e alla famiglia, periodicamente in lotta tra di loro, pronti nondimeno a unirsi per combattere un invasore straniero.

La lotta alla droga non è mai stata vista come una priorità e non si è mai cercato di raggiungere alcun tipo di sforzo comune, anche per i diretti coinvolgimenti di alcuni esponenti governativi di spicco.

All’inizio della missione Isaf alcune delle nazioni partecipanti si erano fatte carico di riorganizzare i vari settori istituzionali, sociali ed economici del paese.

Il Regno Unito avrebbe dovuto seguire il problema dell’eradicazione del papavero, mentre l’Italia si era proposta per la ricostruzione del sistema giudiziario. Sul terreno le operazioni erano condotte dalla Dea, d’intesa con il governo afghano e con un limitato supporto militare statunitense.

Secondo una visione tradizionale del concetto di counterinsurgency, che prevedeva di combattere la guerriglia militarmente, il problema della droga era ritenuto secondario e una distrazione di risorse nel contrasto agli insorti, malgrado le esperienze maturate in Sud America negli anni ’70 avessero dimostrato a Washington lo stretto legame tra guerriglia e droga.

Il livello di corruzione nei settori pubblico e privato rappresentava una forte minaccia per il successo della missione e per la vitalità dello stato afghano.

La corruzione minava la legittimità e l’efficacia del governo, rendeva i criminali e le loro reti clientelari sempre più forti, alimentava il malcontento tra la popolazione e generava sostegno attivo e passivo all’insurrezione.

La corruzione dei pubblici ufficiali ha garantito ai trafficanti di droga l’impunità ingenerando una diffusa cultura dell’illegalità, che ostacolava la crescita economica del paese impedendo lo sviluppo di una economia legale, perpetuando così la dipendenza dall’assistenza internazionale.

Tale fenomeno era ampiamente noto in ambito comunità internazionale e, pur consapevoli dei danni che provocava, non è mai stato contrastato in modo deciso, per ragioni di opportunità.

Un problema dovuto anche ai donatori istituzionali e non governativi che non sempre hanno controllato, o inteso controllare, la destinazione, intesa come gestione e impiego dei fondi e la distribuzione degli aiuti, situazione ricorrente in tali missioni.

Intromissioni occidentali

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In Afghanistan è mancato sin dall’inizio un indirizzo unitario nella condotta dell’intervento, che non ha consentito di definire l’End state da conseguire al termine dell’impegno internazionale da cui doveva discendere una coerente exit strategy e le risorse necessarie per la condotta delle operazioni.

In vent’anni si sono succedute quattro missioni con finalità, regole d’ingaggio, caveat e modus operandi diversi.

La international security assistance force, dal 20 dicembre 2001 al 31 dicembre 2014, e la resolute support mission, dal 1° gennaio 2015 al 31 agosto 2021, entrambe a seguito di una risoluzione del consiglio di Sicurezza dell’Onu e rivolte, oltre a contrastare l’insurrezione talebana, a contribuire allo sviluppo socio economico della società.

Le operazioni a guida statunitense Enduring Freedom, dal 7 ottobre 2001 al 28 dicembre 2014, e Freedom’s Sentinel, dal 29 dicembre 2014 al 31 agosto 2021, indirizzate esclusivamente a combattere il terrorismo.

Isaf, in particolare, una delle più impegnative missioni della storia, che al suo apice, nel 2011, consisteva in oltre 130mila uomini e donne provenienti da 51 nazioni della Nato e dei paesi partner, era una «coalizione di più coalizioni», incentrata sulle nazioni leader (Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Turchia, USA) responsabili delle operazioni nei settori in cui era suddiviso il teatro operativo.

L’accusa, infine, di attribuire la colpa della rapida vittoria talebana esclusivamente alle forze di sicurezza afghane, affermando che mancava loro la volontà di combattere appare ingiusta: circa 66mila soldati e agenti di polizia sono caduti nella lotta contro gli insorti. Questi non sono numeri delle perdite di un esercito che ha paura di combattere.

Il disfacimento delle Andsf, Afghan national defence and security forces, è dovuto all’incapacità e disonestà dei livelli più alti delle istituzioni governative.

Corruzione, nepotismo e perseguimento di interessi personali hanno pervaso le forze di sicurezza e minato fortemente alla fine la loro volontà combattiva tanto che i fondi destinati al carburante, alle munizioni, agli equipaggiamenti e agli stipendi erano dirottati regolarmente verso funzionari e ufficiali corrotti.

Ma anche i paesi della coalizione hanno le loro responsabilità per le modalità con cui hanno impostato, diretto e condotto la ricostruzione delle forze afghane.

Questo è potuto accadere nella presunzione di aver voluto addestrare le Andsf secondo i canoni occidentali, senza tener conto che per formare una forza armata convenzionale servono decenni, una solida classe di comandanti e una ferma decisione politica, soprattutto quando la mentalità è completamente diversa, come si era già visto per le forze armate irachene.

Le attività degli addestratori stranieri hanno spesso contribuito a far disimparare a combattere gli afghani, pretendendo di insegnare loro che sono, non dimentichiamolo, i guerrieri più temuti dell’Asia Centrale , le procedure occidentali.

Lo scrittore William Dalrymple, nel suo libro Il ritorno di un re (Adelphi 2015), ha messo ben in evidenza i fallimentari parallelismi delle due disastrose intromissioni occidentali fra XIX e XX secolo: «Centosettant'anni dopo, le stesse rivalità tribali, le stesse battaglie negli stessi luoghi all’ombra di nuove bandiere, nuove ideologie e nuovi burattini. Le stesse città erano presidiate da truppe straniere che parlavano la stessa lingua e subivano attacchi dalle stesse colline circostanti e dagli stessi passi. In entrambi i casi, gli invasori pensavano di venire, cambiare il regime e andarsene in un paio d’anni. In entrambi i casi invece non sono riusciti a evitare di restare invischiati in un conflitto assai più ampio».

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