L’autoritarismo inizia sempre a scuola. È lì che il potere si traveste da moralismo, censura le differenze e addestra all’obbedienza. Vietare di parlare di corpi, sessualità, omolesbobitransfobia e consenso significa togliere parola e diritti a chi cresce
Ci siamo abituatə a leggere notizie come questa - il divieto di parlare di relazioni e di genere nella scuola secondaria di primo grado - come se fossero derive grottesche, esplosioni sporadiche di fanatismo, frutti maldestri di un governo ignorante. Ma non è così. Non c’è nulla di folcloristico né di improvvisato nell’emendamento approvato mercoledì in Commissione Cultura come modifica al ddl Valditara sul consenso informato: è un tassello del progetto politico coerente della Destra, nel quale la scuola diventa il primo terreno di intervento per costruire uno stato autoritario, confessionale e patriarcale.
Vietare di parlare di corpi, sessualità, omolesbobitransfobia e consenso nelle scuole significa togliere parola e diritti a chi cresce. Significa addestrare le persone giovani e chi insegna alla paura e al silenzio. È una pedagogia del controllo: non formare cittadinanza consapevole, ma obbedienza. E mentre si moltiplicano i femminicidi, mentre ogni settimana il Paese assiste all’ennesimo assassinio di una donna da parte di un uomo che diceva di amarla, lo stesso governo che invoca il «rispetto delle donne» vieta di realizzare a scuola interventi che ne parlino. Come si può pensare di prevenire la violenza di genere se si censura l’educazione sessuo-affettiva?
Chi oggi propone divieti non vuole che, nelle scuole medie, si lavori sulla consapevolezza emotiva, sul rispetto dei corpi, sulla gestione dei conflitti, sulla capacità di riconoscere la distinzione tra piacere e pressione, tra intimità e possesso, tra conflitto e violenza. Educare al consenso, in questa fascia d’età, significa fornire strumenti per orientarsi nelle relazioni - offline e online - e per riconoscere la differenza tra relazioni paritarie e dinamiche di controllo.
Quando un’insegnante parla di parità di genere in classe, non fa propaganda ma educazione civica, nel senso più profondo del termine. Lavora su come gli stereotipi condizionano aspettative e scelte, orientano le carriere scolastiche e professionali, determinano chi si sente all’altezza e chi no. Lavora sui linguaggi, sulle rappresentazioni, sui testi e sulle immagini che abitano i libri di scuola. Apre spazi di confronto in cui maschi e femmine, persone non binarie, ragazze e ragazzi di ogni provenienza possano riconoscersi come soggetti egualmente degni di parola, di emozione e di libertà. In questi spazi, dove si impara ad ascoltare e a essere ascoltati, a rispettare le differenze e a nominare i propri limiti, la scuola svolge la sua funzione più alta ed è da qui che si fa la prevenzione della violenza.
L’educazione sessuo-affettiva non è un vezzo progressista, ma la condizione minima di una società che voglia liberarsi dalla violenza di genere in tutte le sue forme. Chi vuole negarla non difende l’infanzia né le famiglie: le espone al rischio. Perché un paese in cui non si può parlare di educazione al consenso è un paese che normalizza, e infine istituzionalizza, il sopruso.
Il laboratorio dello stato autoritario
Non è la prima volta che un progetto autoritario inizia dalla scuola. È sempre dalla scuola che si comincia, perché lì si forma il linguaggio, la memoria, la capacità di dissentire. Così fu nella storia del fascismo italiano: la riforma Gentile, con la centralità della religione cattolica, la selezione delle élite e il giuramento imposto ai docenti, non fu solo una riforma pedagogica ma un esperimento di disciplinamento morale e politico. E così in altri regimi - dal nazismo al franchismo, dallo Stato salazarista alle dittature latinoamericane - la scuola fu utilizzata per addestrare all’obbedienza, cancellando filosofia, sociologia, educazione sessuale e civica in nome di un ordine «naturale» da preservare.
Oggi, in Europa, Polonia e Ungheria hanno già riscritto programmi, censurato libri e vietato ogni parola su genere e orientamento, mentre predicano la difesa della famiglia e dei valori tradizionali. La storia è sempre la stessa: il potere si insinua nelle aule, si traveste da moralismo e comincia a censurare le differenze, cancellando diritti, cittadinanza e intere esistenze. Chi pensa che tutto questo sia solo una questione «di morale» non coglie la posta in gioco. È nella scuola che si misura la tenuta democratica di un paese. È qui che si decide se il futuro sarà fatto di libertà o di obbedienza. Quando si mette il bavaglio al corpo insegnante e si impone il consenso dei genitori per parlare di affettività e differenze, si trasmette l’idea che la conoscenza sia pericolosa, la libertà sospetta, la pluralità devianza.
La scuola pubblica e democratica, quella immaginata dalla Costituzione, si fonda sull’apertura, non sulla censura e serve a unire e mescolare, non a separare. Oggi attraverso circolari, decreti, emendamenti e un linguaggio moralista che alimenta la paura si manifesta la prima fase della trasformazione autoritaria dello Stato. E allora la domanda, oggi, non è più che cosa stia accadendo, ma che cosa stiamo aspettando. Cosa vogliamo aspettare per reagire insieme - nelle scuole, nei territori, nei luoghi in cui ogni giorno si costruisce cittadinanza, nei banchi dell’opposizione, nelle istituzioni locali che ancora praticano prevenzione e democrazia - contro questo laboratorio di Stato autoritario che il governo Meloni sta edificando?
La qualità di una democrazia si misura dalla libertà che concede alla scuola, alle nuove generazioni e all’insegnamento come pratica di pensiero critico. E quando divieti e censure varcano la soglia delle aule, non è solo la scuola a spegnersi: è l’intera società che rinuncia a comprendere se stessa.
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